Retail master race

Retail master race

Il fatt[acci]o che il nuovo thegamesmachine.it sia un portale multipiattaforma mi permette, finalmente, di sconfinare in territori fino a qualche giorno fa impossibili da esplorare. Sì, perché se da un lato io sono sempre stato un giocatore PC, dall’altro non ho mai disdegnato lunghi flirt con le console da casa. Più in generale, il mio approccio al gameplay è sempre stato trasversale, e tuttora poco mi importa che il tal titolo giri sull’ammiraglia redazionale o sul vecchio NES al sicuro nello sgabuzzino; l’unica cosa che mi sta a cuore è che giri, permettendomi di giocare. Vero è che non tutti i gameplay si prestano a una fruizione dal divano di casa o, viceversa, trovano il giusto dinamismo nella rigidità imposta dall’accoppiata mouse e tastiera. Penso a Civilization Revolution su Xbox 360, che se anche si controlla via pad è stato semplificato per l’occasione in maniera tanto esagerata da snaturarlo; così come a un Rayman Origins che certo non necessita di una posizione composta sulla sedia alla scrivania per essere spolpato come si deve. Ovvio, tra la possibilità di collegare il tower di casa al televisore del salotto e i controller ormai caratterizzati dallo stesso numero di pulsanti, trigger e stick analogici, la via del giocatore only PC sembrerebbe l’unica intelligente da percorre, eppure c’è un fattore che mi sta rendendo invisa questa prassi.

Editoriale fisicità master race

Complice quella cronica mancanza di tempo di cui parlavo settimana scorsa (qui), questa mia passione per i videogiochi è da tempo legata al feticcio della fisicità di hardware e software. Mi rendo conto che quanto appena esposto sfugge all’amore per il gameplay (Rikkomba docet) e ci porta nel terriorio del becero materialismo, ma razionalmente faccio fatica a separare queste due anime così strettamente legate tra loro, in me. Io sono uno di quelli che quando c’è da cambiare la scheda video conserva quella vecchia ordinatamente in cantina e nel suo imballo originale. Senza potermi paragonare al Danilo Dellafrana che vive semisommerso nel suo bunker da hardware d’annata – sempre collegato e pronto all’uso, ovviamente – ho il garage che straripa di vecchi CRT, periferiche ormai inutilizzabili, cavi di cui non ricordo la funzione, spinotti, viti, ventole e trasformatori. La stessa malattia mi colpisce, ahimè, per le versioni scatolate dei giochi, dalle quali non riesco a separarmi nemmeno a fronte di offerte economicamente vantaggiose (come un 200 euro sonanti per la Limited Edition di Baldur’s Gate II, completa di tutto, fattami da un amico alla sua disperata ricerca). Ecco: poi arrivò Half-Life 2. Chissà quanti, tra di voi, erano con me quel famigerato day one in cui i server erano intasati e nessuno riusciva ad attivare la propria copia del gioco… Stava cambiando tutto, ma io non me ne accorsi subito. Oggi, più di dieci anni dopo, le modalità di accesso al software sono drasticamente evolute, e l’innalzamento esponenziale della velocità di download e upload nelle nostre case permette di acquistare giochi senza uscire sul pianerottolo o spulciarsi paginoni giallo fluorescente alla ricerca del titolo d’importazione da ordinare al telefono. Ciò nonostante, piattaforme come Steam mi hanno portato via qualcosa. Per quanto la gamification abbia sventato il pericolo di trasformarle in perfetti esempi di nonluoghi augeiani (Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, 1996), la pratica del digital delivery ci getta in un carosello di acquisti compulsivi privi di una reale aggettivazione materiale. Lo spazio occupato da Steam (e soci) nelle nostre vite è uno spazio su cui non abbiamo alcun controllo, al pari di un hard disk su cui abbiamo riversato disordinatamente tutti gli scatti di una vita.

Nel guardare gli scaffali che conservano le versioni retail dei giochi su cui mi sono formato, ritrovo e rileggo il mio percorso di crescita

Ferdinando Scianna, noto fotografo siciliano, sull’argomento ha detto che collezionare fotografie digitali non è paragonabile a raccoglierle in un album di famiglia. L’album di famiglia si configura come un gesto simbolico, volto a definire l’identità del gruppo sociale che le ha raccolte in un documento tramandabile. Io, nel guardare gli armadi e gli scaffali che conservano le versioni retail dei giochi su cui mi sono formato, ritrovo e rileggo il mio percorso di crescita; mi posso alzare dalla poltrona, sfilare lo scatolato dalla fila, sentirne l’odore, aprirlo, mostrarlo, raccontarlo. Le librerie digitali mi hanno portato via tutto questo, ammaliandomi con sconti stagionali e la promessa di liberare la mia casa dalla polvere. Nella realtà dei fatti – e la cosa risulta ancor più evidente se pensiamo ai libri da sfogliare – la mia esperienza con il medium ne è uscita depauperata di una connotazione fisica che risulta sacrificabile solo alla luce della voracità con cui l’industria vorrebbe che noi consumassimo giochi, ossia il più velocemente possibile così da comprarne ancora, e ancora, e ancora. Lo spunto per questo editoriale, quindi, me l’ho ha dato Divinity: Original Sin. Ma non la versione PC (che non esiste), bensì quella retail per PS4 acquistata dopo 3 mesi di ricerca e trovata al miglior prezzo possibile. Ecco: è in questo processo di attesa, ricerca, reperimento e inserimento del disco che, quasi come con una donna desiderata e corteggiata a lungo, la mia esperienza col titolo di Larian Studios è stata costruttiva, per la mia identità di player. Certo, non è possibile farlo con tutti i giochi, in tutte le occasioni e per tutte le piattaforme, ma negli ultimi anni ho tentato, laddove possibile e con i software che più attendevo, di utilizzare questo approccio. So di non essere solo, e che là fuori c’è pieno di ragazzi che, come me, sognano di entrare in possesso di una copia di ET per Atari ritrovata in New Messico da non seppellire mai più. Forse dovremmo riunirci, parlare, fare cose… o forse, più semplicemente, dovremmo tutti crescere (e farci curare).

Articolo precedente
dontnod entertainment borsa parigi life is strange iphone ipad

C.R.I.L.S., Comunità di Recupero per Insensibilità a Life is Strange

Articolo successivo

L'insostenibile pesantezza della second run

Condividi con gli amici










Inviare

Rispondi

Il tuo indirizzo email non verrà reso pubblico.

Puoi usare i seguenti tag e attributi HTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

Parliamo di...
  1. 1.
    lasciamo perdere la dimensione di quello che io definisco "cimitero dell'hardware", che custodisco gelosamente in cantina, dove si trovano chicche come la Voodoo 2 (e relativo cavo per collegarne 2 insieme), un modem ISDN e perle del genere :asd:
    3.
    heXen
    Che ricordi la voodoo 2 :asd: , con le glide spaccava.
    decisamente sì
    4.
    I prodotti che suscitano il mio...come dire?..."Vero Affetto" li acquisto rigorosamente scatolati, possibilmente nella versione Collector's.
    Mi piace ancora troppo guardare le scatole in bella mostra sullo scaffale (quello vero, non quello virtuale).
    5.
    Io ho l'originale DooM II in floppy da 3,5:commosso: e pure la versione da CD uscita in seguito, e me ne vanto! :jfs3:
    6.
    Io son sempre stato una disgrazia. Difatti non avevo la Voodoo 3.
    Avevo la Voodoo Banshee.
    Il disagio.
    8.
    AstroTasso
    Io son sempre stato una disgrazia. Difatti non avevo la Voodoo 3.
    Avevo la Voodoo Banshee.
    Il disagio.

    la banshee!!! Quella aveva ben 12mb di memoria! :asd:
    9.
    AstroTasso
    Io son sempre stato una disgrazia. Difatti non avevo la Voodoo 3.
    Avevo la Voodoo Banshee.
    Il disagio.
    AHAHAHAH
    beh succede a tutti... io sono anche passato per la Matrox Mystique, pensa te a che livello mi ero ridotto :bua:
    10.
    Beati voi con le Vodoo io avevo la Matrox M3d che montava chip PowerVR.. E' Vero lo scatolato ormai non ha più senso di esistere.. non ci sono più nemmeno i libretti di una volta, che si leggevano anche solo per "piacere".

Password dimenticata