Con l’uscita di Zelda: Breath of the Wild si è ripresentato uno di quegli scenari (non così) rari nel mondo dei videogiochi che ha visto la critica riunirsi nei pressi del tetto di un unico voto perfetto: dieci. Non capita spessissimo, è vero, nonostante l’evidente sbilanciamento nella scala valori utilizzata per giudicare il mondo dei videogiochi, ma è uno di quei frangenti dove viene fuori tutto il marcio che gira attorno a questo bellissimo hobby. Tantissimi utenti hanno urlato allo scandalo e hanno riproposto la vecchia cara storiellina che il dieci, in quanto perfezione assoluta, sarebbe una chimera irraggiungibile e pertanto fuori luogo in fase di recensione.
C’è anche chi, come il giornalista Jim Sterling, ha provato ad andare controcorrente, “punendo” il gioco con un 7. Zelda, a suo dire, è schiavo di meccaniche non proprio felici, specie in fase di gestione dell’equipaggiamento (che si rompe troppo spesso) e della resistenza fisica di Link. Il pubblico non ha per niente gradito nemmeno il suo punto di vista (discutibile, come del resto lo sono tutti i pareri) e, come un mucchio di perfidi bambini, non solo lo ha insultarlo nei commenti, ma lo ha anche colpito con rappresaglie vere e proprie, tanto che il suo sito ha subito diversi attacchi DDOS atti a oscurarlo.
A prescindere da questa circostanza, sono d’accordo nel sostenere che la critica videoludica sia spesso di basso livello. Ho scritto, un po’ di tempo fa, un editoriale sul come dovrebbe cambiare il ruolo di chi scrive nell’era di YouTube e sono ancora sostanzialmente di quel parere. A volte la critica è sciatta, incredibilmente superficiale, spesso sacrifica qualcosa pur di arrivare in tempo alla scadenza dell’embargo e rientrare quindi nella copertura globale, ma soprattutto si aggrappa talvolta a concetti vecchi, in un mondo che cambia in maniera estremamente veloce. Qualcuno vi racconta ancora come si gioca, vi spiega l’interfaccia in un momento storico in cui potete accendere YouTube e vedervela meglio – e prima – di quanto non abbia fatto lui; qualcun altro, invece, vi fa la telecronaca delle modalità, come se non fosse argomento trito e ritrito. Quando è al suo peggio la critica videoludica non solo è di poco conto, ma è quasi offensiva, perfino anacronistica. Ma sapete perché? Perché il pubblico per cui scrive non è di certo meglio.
Spesso si scrive per un pubblico che tratta i videogiochi come fossero compiti di matematica
La critica videoludica forse non è mai nata perché non c’è nessuno disposto ad ascoltarla. Se nella recensione (che deve essere sempre e comunque una recensione: perentoria, obbligatoria, guai a cambiare la formula) ti permetti di non rispettare certe regole di forma e concetto, allora sei un folle, uno che non ha centrato il punto dell’articolo. Vale la pena comprare questo gioco, oppure no? Questo non è critica, è un consiglio per gli acquisti.
Chi scrive di videogiochi, in sostanza, lo fa per un pubblico che vuole esattamente ciò gli viene dato, in una paradossale situazione in cui tutti vivono infelici e scontenti. Come in un all you can eat giornalistico, l’importante è scrivere, scrivere tanto, e che possibilmente sia tutto fritto in modo da coprire i sapori non eccellenti ma sempre familiari. Non è facile cambiare questa regola, ormai, perché chi fa di questo mestiere una professione con cui campa ha bisogno di numeri di gente che legge, di chi discute e – perché no? – di chi si lamenta che il voto andava alzato di mezzo punto o che il gioco X avrebbe dovuto avere 0.3 decimi di voto in meno. E che il dieci – perbacco – il dieci non esiste! È come il cucchiaio di Matrix. E via, voli pindarici sulla spiegazione del perché una scala valori che va da 1 a 10 debba essere utilizzata nello stretto intervallo che va da 7.4 a 9.8 e mai, assolutamente mai oltre.