Il vecchio e il bambino

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Ci sono due immagini del passato che si sono riaffacciate alla mia memoria durante le elucubrazioni che hanno preceduto la stesura di questo editoriale. La prima riguarda mio nonno e la mia infanzia, ai tempi delle elementari o giù di lì. Stavamo passeggiando allegramente per le vie di un paese del mantovano, quando apparve ai nostri occhi una vecchia cascina, con un muro mezzo distrutto: mio nonno si avvicinò, toccò a mano aperta ciò che rimaneva della vecchia parete e mi narrò di come fu lì – ancor più che in Etiopia – ad aver visto la morte in faccia per davvero, e di come quei mattoni ancora aggrappati al cielo gli avessero salvato la vita. Dietro quel rudere si nascose una sera, dopo aver udito Pippo arrivare in lontananza col suo carico di odio, ed è di certo anche grazie a quel muro se oggi posso scrivere l’articolo che state leggendo.

La seconda è relativamente più recente e risale a una quindicina di anni fa, poco prima del mio matrimonio. Ero in casa della mia futura moglie, quando ho assistito al primo approccio di mia suocera con un PC dotato di mouse. Fino ad allora la sua esperienza con la tecnologia era rimasta confinata all’accendere/spegnere il televisore (ancora oggi rigorosamente catodico), gestire l’apparecchio per la filodiffusione (ancora oggi rigorosamente funzionante) e smanettare su un vecchio Olivetti con un monitor a fosfori verdi (ancora og-, no… quello ha salutato, fortunatamente). Di fronte a un oggetto così strano come un mouse, l’oramai ex insegnante di scuola elementare deve aver pensato a quanto fosse per lei più facile gestire una classe di bambinetti urlanti, piuttosto che l’interagire con quel “coso”. I suoi occhi passavano dal monitor alla mano, e poi ancora al monitor, e poi ancora alla mano: con grande difficoltà spostava il mouse guardandolo, per poi cercare dove fosse finito il puntatore sullo schermo; e via di nuovo, in una danza a metà tra il ridicolo (ho riso molto, lo ammetto!) e la tenerezza.

Fino a qualche anno fa, di fronte a situazioni di quel tipo, immaginavo istintivamente me stesso da vecchio. Sarei riuscito a stare al passo coi tempi, o avrei avuto figli e nipoti che mi avrebbero guardato con aria impietosita e ricca di sconforto, come abbiamo fatto io e mia moglie nel caso di cui sopra? Ora che ho passato i 45 anni, ho maturato una convinzione, che in parte si lega a un pezzo scritto recentemente dal mio amichetto di merende Claudio Todeschini (questo editoriale qui, per l’esattezza): faticherò a capire le mode e non comprenderò l’utilizzo che i giovani ne faranno (già accade ora, almeno in parte, guardando all’uso che i miei figli fanno di YouTube), ma avrò sempre il possesso e la conoscenza del mezzo tecnologico. Questo perché i “veri” nativi digitali – checché se ne dica – siamo noi, i quarantenni suonati. È nostra la generazione che ha preso il treno alla stazione di partenza; siamo noi quelli abituati fin da piccoli a restare costantemente aggiornati, vuoi per curiosità nostra, vuoi perché il destino ha deciso di farci nascere proprio mentre si stava formando l’onda che ci avrebbe travolto da lì a poco.

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Noi quarantenni siamo la prima generazione che si è abituata a seguire l’evoluzione tecnologica e a fari propri i cambiamenti

Insomma, siamo noi i veri nativi digitali per il semplice fatto che la tecnologia come la conosciamo oggi l’abbiamo vista nascere. È perché abbiamo passato notti sulle BBS (non prima di aver ascoltato questo suono, cui si riferisce l’immagine qui sopra) a discutere di come internet si stesse trasformando da circolo per pochi a mezzo per tutti che adesso sappiamo come muoverci sciolti nel mare del web, anche senza avere in mano una bussola; è perché abbiamo giocato interi pomeriggi a Ultima che oggi possiamo cogliere con occhio diverso l’essenza buona di The Witcher; è perché abbiamo avuto in mano uno StarTAC che siamo maggiormente consapevoli di quanto sia importante, oggi, poter fare tante cose in mobilità. Per questi e per tanti altri motivi, la nostra è stata la prima generazione che si è abituata a seguire l’evoluzione tecnologica e a far propri i cambiamenti: ecco perché sono fiducioso del fatto che l’anzianità non mi coglierà impreparato, almeno da questo punto di vista.

Il fatto di incarnare la memoria storica di molte cose fin dalle origini (nel mio caso, dei videogiochi in particolare) dovrebbe rappresentare una risorsa per i più giovani, non un ostacolo. E invece, sempre più spesso noi “anzianotti” siamo guardati con lo stesso occhio col quale, infingardamente, ho osservato mia suocera muovere il mouse: per alcuni siamo già i “vecchi bacucchi” fuori tempo massimo, incapaci di tenere il passo perché legati ai bei tempi andati. Beh, la notizia è che non è così.

Ciò che auspico, e che credo sia possibile accada per la prima volta nella storia dei rapporti intergenerazionali, è l’esistenza di un dialogo diretto tra i nativi digitali di oggi e quelli di ieri. I primi, una volta accettato il fatto che noi vecchietti siamo in grado di seguire l’onda dell’ evoluzione tecnologica, potrebbero insegnarci un modo, certo diverso e più moderno, di farne uso; allo stesso tempo, però, gli stessi potrebbero fare atto di umiltà, cancellando dalla mente il senso di superiorità instillato dal sentirsi giovani invincibili, e abbeverarsi dai più esperti come si fa da un’inestimabile fonte di esperienza. È solo imparando il passato da chi l’ha vissuto che si può comprendere meglio il presente e affrontare preparati il futuro. Esattamente come ha fatto mio nonno con me, quando ha poggiato la sua mano sul quel vecchio muro.

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