In moltissimi ci avete chiesto un parere sul referendum abrogativo del 17 aprile e dato che manca poco è giunta l’ora. Tendenzialmente quando si affrontano questi argomenti è cosa buona avere qualcosa da raccontare e in molti lo hanno fatto. Facendo una ricerca su Google potete trovare molti articoli in cui gli autori spiegano perché voterebbero sì o no, altri dove vengono spiegati gli effetti del voto. La carne al fuoco è molta, ma essendo il referendum comunque un atto politico preferisco affrontare la questione in maniera diversa, con un metodo molto poco utilizzato in Italia: il
reality check e nel dettaglio il reality check di quanto sostenuto dalla campagna del sì. Per quanto possa sembrare una presa di posizione è utile ricordare che stiamo parlando di un referendum abrogativo nato da un’iniziativa dei consigli regionali di Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania, Molise e Abruzzo – che poi si è tirato indietro – quindi c’è qualcuno che sta chiedendo agli italiani un’opinione sulla modifica di una norma dietro a una spinta politica. È importante perciò capire quali informazioni vengano date a sostegno di questa richiesta. Da notare che è la prima volta che un referendum viene indetto su iniziative delle regioni italiane. Prima di tutto alcuni link utili:
LA DATA La prima polemica è stata sulla scelta della data, il 17 di aprile, non per la data in sé ma perché il comitato sostenitore chiedeva l’accorpamento con le elezioni amministrative di questo anno. Dal loro sito troviamo questo
comunicato stampa (formato Word):
“Chiedere al Governo di rivedere il provvedimento in favore di un election day che accorpi il voto alla prossima tornata elettorale delle amministrative e non firmare la deliberazione governativa che istituisce la data del 17 aprile per il voto referendario”. E’ la richiesta rivolta a Sergio Mattarella da associazioni ambientaliste, sociali e studentesche, organizzazioni sindacali, comitati e testate giornalistiche che hanno scritto oggi al presidente della Repubblica in merito alla data fissata ieri dal Governo per il referendum popolare sulle trivellazioni in mare.
Nella lettera inviata al presidente Mattarella, i firmatari ribadiscono le ragioni a sostegno della necessità di un election day che accorpi il referendum alle prossime elezioni amministrative: una “richiesta avanzata da Regioni, parlamentari, associazioni ambientaliste, comitati e rappresentanti della società civile” e ignorata dal Governo, nonostante fosse “un’opzione perseguibile in tempi brevi, adottando lo strumento del decreto legge”.
La scelta di una data diversa dall’e
lection day potrebbe anche essere vista come una ripicca del Governo nei confronti del comitato sostenitore, ma è l’applicazione dell’
attuale legge che concerne la questione elezioni, il Decreto Legge n. 98 del 6 Luglio 2011, articolo 7:
1. A decorrere dal 2012 le consultazioni elettorali per le elezioni
dei sindaci, dei Presidenti delle province e delle regioni, dei
Consigli comunali, provinciali e regionali, del Senato della
Repubblica e della Camera dei deputati, si svolgono, compatibilmente
con quanto previsto dai rispettivi ordinamenti, in un’unica data
nell’arco dell’anno.
2. Qualora nel medesimo anno si svolgano le elezioni dei membri del
Parlamento europeo spettanti all’Italia le consultazioni di cui al
comma 1 si effettuano nella data stabilita per le elezioni del
Parlamento europeo.
I referendum non sono tra le consultazioni previste per l’accorpamento all’interno dell’election day. Il problema è in realtà antico e si ripropone a ogni referendum. Come riporta l’Huffington Post,
nel 2009 e nel 2011 successe la stessa cosa con gli stessi toni – “spreco di risorse pubbliche” – a parti invertite: era il Partito Democratico ai tempi a sostenere la necessità di un accorpamento e presentò nel 2011 anche una
mozione per chiederlo, così come quest’anno è stata SEL a presentare una
proposta di legge che lo prevedesse. Questa faccenda rientra in quella categoria dei “giochini politici” dove tutti, a turno, fanno gli indignati, la voce del popolo o il padrone che non vuol sentire ragioni.
Era quindi possibile accorpare il voto referendario nell’election day? Solo modificando apposta l’attuale legge in merito. La risposta quindi assomiglia molto più ad un sì che ad un no, ma chi propone i referendum dovrebbe partire dal presupposto che la legge non preveda questo accorpamento, ergo chi propone un referendum sa già che non capiterà. Chiedere per ogni singola necessità un DL è un principio sbagliato, pericoloso e controproducente, che rischia solo di creare confusione a livello normativo. Sul sito del Comitato viene riportato quanto segue riguardo alla data:
Sarà possibile votare per il referendum soltanto nella giornata di domenica 17 aprile. Per la prima volta nella storia Repubblicana, infatti, il Governo ha convocato un referendum nella prima domenica disponibile per mettere i bastoni tra le ruote, riducendone sensibilmente il tempo a disposizione, a una campagna referendaria che evidentemente lo spaventa.
Lettura politica a parte, se era la prima domenica utile significa che era una domenica utile, quindi il Governo non ha fatto nulla di irregolare. Come per il principio dell’
election day, se si voleva evitare questo tipo di problema avrebbero dovuto pensarci molto prima. Che sia la prima volta poi non ha nessun valore significativo: questo è anche in assoluto il primo referendum su proposta dei consigli regionali.
IL REFERENDUM E IL QUESITO Dettaglio non da poco è a cosa ci viene chiesto di esprimere una opinione contraria o a favore. Il titolo del referendum è:
Divieto di attività di prospezione , ricerca e coltivazione di idrocarburi in zone di mare entro dodici miglia marine. Esenzione da tale divieto per i titoli abilitativi già rilasciati. Abrogazione della previsione che tali titoli hanno la durata della vita utile del giacimento.
Mentre il quesito è il seguente:
Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n.152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”? Più nel dettaglio spiegano il significato del referendum:
Con il referendum del 17 aprile si chiede agli elettori di fermare definitivamente le trivellazioni in mare. In questo modo si riusciranno a tutelare definitivamente le acque territoriali italiane. Nello specifico si chiede di cancellare la norma che consente alle società petrolifere di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane senza limiti di tempo. Nonostante, infatti, le società petrolifere non possano più richiedere per il futuro nuove concessioni per estrarre in mare entro le 12 miglia, le ricerche e le attività petrolifere già in corso non avrebbero più scadenza certa. Se si vuole mettere definitivamente al riparo i nostri mari dalle attività petrolifere, occorre votare “Sì” al referendum. In questo modo, le attività petrolifere andranno progressivamente a cessare, secondo la scadenza “naturale” fissata al momento del rilascio delle concessioni.
Questo è un punto molto importante che purtroppo viene spiegato molto male:
Con il referendum del 17 aprile si chiede agli elettori di fermare definitivamente le trivellazioni in mare.
No, le trivellazioni in mare non vengono fermate definitivamente. Come riportano due righe dopo è già vietato fare nuove trivellazioni entro le 12 miglia marine, quindi è possibile effettuare nuove trivellazioni oltre le 12 miglia marine e questo non viene modificato dal referendum. Non sono quindi le trivellazioni ad essere colpite dal quesito – non è che ogni giorno queste strutture eseguano delle nuove perforazioni nel fondale – ma le concessioni per l’estrazione del gas naturale e di petrolio (di questo parliamo tra poco). Se vincesse il sì al momento attuale e nel breve termine cambierebbe ben poco. Qui potete vedere quali sono le zone dove è possibile effettuare richieste:
Se il referendum non raggiungesse il quorum, o vincesse il no, tutte le concessioni attualmente attive entro le 12 miglia continuerebbero ad estrarre gas o petrolio fino all’esaurimento naturale delle risorse; se invece dovesse vincere il sì le concessioni non potranno più essere prorogate oltre l’attuale scadenza delle esistenti concessioni. Le concessioni scadute per le quali è già stata chiesta la proroga, se approvate, potranno comunque proseguire, nel caso vincesse il sì, fino alla nuova scadenza. Ecco la
situazione attuale delle piattaforme marine aggiornate al 29 Febbraio 2016 in Italia dai dati del Ministero:
- Totale: 135
- Entro il limite delle 12 miglia: 92
- Di queste, non operative: 8
- Di queste, eroganti: 48
- Di queste, non eroganti: 31
- Che estraggono petrolio: 11, attive 10
Da questi dati possiamo dedurre che
43 piattaforme marine, quasi il 32%, non sono interessate dall’esito del referendum. Di quelle interessate solo il 52% è attualmente operativo e di quelle operative solo il 20% estrae petrolio. COSA SI ESTRAE Perché questi dati sono importanti? Perché chi sostiene il sì ha incentrato la campagna contro il petrolio:
Come abbiamo visto, il petrolio pesa solo su un quinto delle estrazioni delle piattaforme interessate. Questi sono i dati sui volumi complessivi estratti negli ultimi anni per il petrolio:
L’estrazione di petrolio è passata da quasi 2 milioni a 750 mila tonnellate, quasi un terzo. Anche per il gas il trend è simile:
Dal 1992 al 2014 l’estrazione complessiva (entro e oltre le 12 miglia) di gas è passato dai 13’500 ai 4’800 miliardi di metri cubi, assestandosi anche qui a poco sopra un terzo della produzione iniziale. Questi numeri sono utili per rendersi conto che l’estrazione non è in aumento, ma in calo. Un altra questione molto importante è che il referendum non va a colpire in nessun modo le “trivellazioni” su terra, ma solo quelle in mare entro le 12 miglia. La produzione italiana di gas interessata da questo referendum è poco meno del 30%, della quale circa il 9% entro breve tempo e il restante dilazionato nei prossimi anni in funzione della scadenza della concessione mentre per il petrolio si rinuncerebbe al 9% circa della produzione (
dati). Le tabelle che vi ho riportato provengono dal Ministero dello Sviluppo Economico, Direzione Generale per le risorse minerarie ed energetiche (
link).
Semplificando, se vincesse il sì dovremmo rinunciare a circa il 10% della nostra produzione di petrolio e il 30% della produzione di gas. Se per il petrolio la paura di disastri ecologici e inquinamento del mare è comprensibile, è saggio rinunciare al 30% della nostra produzione di gas? CHI ESTRAE Sul sito del Comitato si trovano varie news, in una si possono leggere
queste righe:
Il nemico da contrastare è l’impero delle multinazionali, che ha messo in piedi un sistema di sfruttamento globale, capace di corrompere e scavalcare diritti. Abbattiamo questo modello economico imperiale estromettendo le multinazionali dalla gestione delle energie e sostituendovi un modello autogestito, comunità energetiche che agiscano dal basso, all’interno di modelli economici che diano risposte anche ai diritti occupazionali dei lavoratori di Viggiano e non solo.
Oppure:
Le multinazionali che chiedono un permesso per cercare o una concessione per estrarre idrocarburi non lo fanno per corrispondere alle esigenze del fabbisogno energetico nazionale né per creare posti di lavoro. Lo fanno solo per perseguire i propri interessi economici; e questo lo capisce anche un bambino.
Dai dati che fornisce il ministero, entro le 12 miglia marine le concessioni sono attribuite a:
La maggior parte delle concessioni è quindi in mano ad una azienda che senza dubbio rientra nel profilo “multinazionale”, ma è una azienda italiana (ENI). Così come è ovvio che non lo facciano per carità, lo stesso bambino però si rende conto che abbiamo bisogno di estrarre petrolio e gas, così come è chiaro a tutti che ci sia bisogno di soluzioni alternative.
LE ALTERNATIVE Il referendum in questione non ha nessun effetto sull’investimento su soluzioni alternative, che siano solare o eolico. L’unico effetto diretto del referendum è diminuire gradualmente l’estrazione di gas e petrolio, non di diminuirne il consumo o di aumentare la produzione di energia da fonti rinnovabili. Dai
flyer del Comitato del sì:
Il tempo delle fonti fossili è scaduto: in Italia il nostro Governo deve investire da subito su un modello energetico pulito, rinnovabile, distribuito e democratico, già affermato nei
Paesi più avanzati del nostro Pianeta
Oggi l’Italia produce più del 40% della sua energia elettrica da fonti rinnovabili, con 80mila addetti tra diretti e indiretti, e una ricaduta economica di 6 miliardi di euro.
L’aumento delle estrazioni di gas e petrolio nei nostri mari non è in alcun modo direttamente collegato al soddisfacimento del fabbisogno energetico nazionale.
Se per il petrolio – che non significa solo benzina o gasolio, ma dal quale si ottengono una notevole quantità di
derivati – c’è una comprensibile avversione, in un’ottica di passaggio ad un sistema più ecosostenibile il gas naturale ha un ruolo ancora importante. Per esempio, in Italia non è ancora stato completato il passaggio di tutte le caldaie per il riscaldamento domestico da
gasolio a metano e queste inquinano ancora moltissimo. Il 40% di energia elettrica da fonti rinnovabili è un dato importante, ma, come dicevo, queste risorse non servono solo alla produzione di energia elettrica: facile ma incompleto il collegamento petrolio=carburante per auto e gas=riscaldamento e carburante.
CHI CI GUADAGNA E LA QUESTIONE POLITICA Nei vari siti e volantini c’è un messaggio che viene passato un po’ in secondo piano, ma che mi sembra fondamentale. Come si diceva all’inizio non è più possibile effettuare nuove trivellazioni entro le 12 miglia marine – ed è una cosa positiva – ma nel frattempo il Governo ha fatto una
modifica sulla durata:
Perché questo quesito referendario, a cui Legambiente chiede di votare Sì? Perché il governo, con un emendamento alla legge di Stabilità 2016 (che modifica il decreto legislativo 152/2006) ha vietato tutte le nuove attività entro le 12 miglia marine, ma ha mantenuto i titoli già rilasciati prevedendo che essi possano rimanere vigenti “fino a vita utile del giacimento”.
La legge in materia prevedeva che le concessioni di coltivazione avessero una durata trentennale (prorogabile attraverso apposita richiesta per periodi di ulteriori 5 o 10 anni) e i permessi di ricerca una durata di 6 anni (con massimo due proroghe consentite di 3 anni ciascuna); con questa modifica alla legge di Stabilità i titoli già rilasciati entro le 12 miglia dalla costa (e soltanto questi) non hanno più scadenza.
In precedenza le concessioni avevano una durata iniziale di 30 anni, rinnovabile più volte. Per tutte le concessioni oltre le 12 miglia non è cambiato nulla, ma quelle entro i 12 non hanno più scadenza alcuna e potranno andare avanti fino all’esaurimento delle risorse senza bisogno di alcuna proroga; e questo viene visto come un regalo alle aziende estrattrici. La questione riguardo al guadagno delle compagnie viene ribadito più volte. Legambiente dice:
“E’ importante ricordare – sottolinea Rossella Muroni, presidente di Legambiente – che mettere una scadenza alle concessioni date a società private, che svolgono la loro attività sfruttando beni appartenenti allo Stato, non è una fissazione delle associazioni ambientaliste o dei comitati, ma è una regola comunitaria.
Al di là del merito – conclude la nota dell’associazione – non si comprende perché le aziende dell’oil&gas debbano godere di un privilegio che non è dato, giustamente, a nessun altro, e che si aggiunge a tanti altri, agevolazioni fiscali, sussidi indiretti o royalties molto vantaggiose, che Legambiente ha quantificato in circa 2,1miliardi di sussidi diretti o indiretti all’anno all’intero comparto.
Il Comitato comunica:
Gli idrocarburi presenti in Italia appartengono al patrimonio dello Stato, ma lo Stato dà in concessione a società private – per lo più straniere – la possibilità di sfruttare i giacimenti esistenti. Questo significa che le società private divengono proprietarie di ciò che viene estratto e possono disporne come meglio credano. Allo Stato esse sono tenute a versare solo un importo corrispondente al 7% del valore della quantità di petrolio estratto o al 10% del valore della quantità di gas estratto. Non tutta la quantità di petrolio e gas estratto è però soggetta a royalty. Le società petrolifere non versano niente alle casse dello Stato per le prime 50.000 tonnellate di petrolio e per i primi 80 milioni di metri cubi di gas estratti ogni anno e godono di un sistema di agevolazioni e incentivi fiscali tra i più favorevoli al mondo. Nell’ultimo anno dalle royalty provenienti da tutti gli idrocarburi estratti sono arrivati alle casse dello Stato solo 340 milioni di euro.
I grandi vantaggi alle compagnie petrolifere non sono un’esclusiva italiana – il
North Dakota è un esempio lampante e molto recente – ma questo non vuol dire che debba essere tollerato. Arriviamo però al punto più importante per il referendum: è questo lo strumento migliore per correggere la situazione? Non dovrebbe essere la politica – il Parlamento – a gestire queste cose? Il quesito referendario sembra avere più una ragione politica che ambientalista – che per assurdo è l’aspetto che ha le argomentazioni migliori. Leggendo le posizioni di chi sostiene il referendum, solo le questioni puramente ambientali sembrano avere un filo logico coerente.
LA QUESTIONE AMBIENTALELe ricerche di petrolio e gas mettono a rischio i nostri mari e non danno alcun beneficio durevole al Paese. Tutte le riserve di petrolio presenti nel mare italiano basterebbero a coprire solo 7 settimane di fabbisogno energetico, e quelle di gas appena 6 mesi.
L’estrazione di idrocarburi è un’attività inquinante, con un impatto rilevante sull’ambiente e sull’ecosistema marino. Anche le fasi di ricerca che utilizzano la tecnica dell’airgun (esplosioni di aria compressa), hanno effetti devastanti per l’habitat e la fauna marina.
La ricerca e l’estrazione di idrocarburi ha un notevole impatto sulla vita del mare. Le attività di routine delle piattaforme possono rilasciare sostanze chimiche inquinanti e pericolose nell’ecosistema marino, con un forte impatto sull’ambiente e sugli esseri viventi, come dimostrano i dati del ministero dell’Ambiente relativi ai controlli eseguiti nei pressi delle piattaforme in attività oggi nel mare italiano. Anche la ricerca del gas e del petrolio, che utilizza la tecnica dell’airgun (esplosioni di aria compressa), incide, in particolar modo, sulla fauna marina: le emissioni acustiche dovute all’utilizzo di tale tecnica possono elevare il livello di stress dei mammiferi marini, modificare il loro comportamento e indebolire il loro sistema immunitario. Possono provocare inoltre danni diretti a un’ampia gamma di organismi marini – cetacei, tartarughe, pesci, molluschi e crostacei – e alterare la catena trofica. Senza considerare che i mari italiani sono mari “chiusi” e un incidente anche di piccole dimensioni potrebbe mettere a repentaglio tutto questo. Un eventuale incidente – nei pozzi petroliferi offshore e/o durante il trasporto di petrolio – sarebbe fonte di danni incalcolabili con effetti immediati e a lungo termine sull’ambiente, la qualità della vita e con ripercussioni gravissime sull’economia turistica e della pesca.
Qua esce l’anima ambientalista del referendum, sostenuta tra gli altri da Greenpeace, Legambiente e WWF, ed è tutto condivisibile, soprattutto l’avversione per gli effetti dell’
airgun. La tutela dei nostri mari e della sua fauna è importante quanto lo sono le risorse che da lì possiamo ricavare. Ribadisco che trovo le argomentazioni a salvaguardia della fauna marina quelle più importanti, ma bisogna essere onesti con se stessi e ammettere che una vittoria del sì non cambierebbe di gran lunga la situazione, dato che oltre i 22km le attività non verranno assolutamente toccate, per non dimenticare che nei “nostri” mari ci sono le piattaforme autorizzate da altre nazioni. Bisognerebbe quindi rivalutare il concetto di “nostri” mari e forse di quanto sarebbe necessaria una politica comunitaria riguardo a questi problemi (risorse Vs salute del mare). Una regolamentazione più rigida sulle tecniche per la ricerca potrebbe essere una buona idea, ma dovrebbe essere realizzata come un proposta politica, non un referendum.
CHI LO SOSTIENE La lettera al presidente Mattarella a proposito dell’accorpamento nell’election day riporta la firma di:
Firmano la lettera al presidente Mattarella: Adusbef, Arci, Coordinamento FREE, Coordinamento nazionale NO TRIV, Cospe, Enpa, Fairwatch, Federazione Italiana Media Ambientali, Filt-Cgil Roma e Lazio, Fiom-Cgil, Focsiv, Fondazione UniVerde, Giornalisti nell’Erba, Green Cross Italia, Greenpeace, Italia Nostra, Kyoto Club, La Nuova Ecologia, LAV, Legambiente, Liberacittadinanza, Link Coordinamento Universitario, Lipu, Marevivo, Progressi, Pro-natura, QualEnergia, Rete della Conoscenza, Rete Studenti Medi, Si alle rinnovabili No al Nucleare, Slow Food Italia, Touring Club Italiano, Uisp, Unione degli Studenti, Unione degli Universitari, WWF, Altra Trento – Altra Rovereto, CIES, Clima Azione, Club Amici della Terra Versilia, Coalizione Mantovana per il Clima, Gruppo Impegno Missionario di Germignaga, Murales, Oltre La Crescita, Resilienza Verde, RSU Almaviva, Soc. Coop. E’ nostra, TerrediLago.
E QUINDI? Lo scopo di questo articolo non è di spostare verso il sì, verso il no o alla astensione. Negli ultimi – molti – anni non mi sono dimostrato un elettore diligente, ma invitare all’astensione non è una cosa molto civile ed educativa. Ne abbiamo la facoltà ovviamente – a differenza di altri paesi – ma non è la presa di posizione più intelligente. Arriviamo però al momento di tirare le somme.
Le trivelle. Chi spinge il referendum sta puntando molto alla figura della trivella: dire trivella invece di piattaforma di estrazione fa tutto un altro effetto, è chiaro. L’associazione con la denominazione
notriv e al “fermare le trivelle” è una chiara forzatura della realtà come abbiamo visto: a nessuno è consentito
già di trivellare entro quei confini che vengono trattati dal referendum. Il movimento contro la trivellazione è molto più largo e vorrebbe in realtà fermare qualsiasi trivellazione sul
suolo o mare italiano, in assoluto. Il richiamo costante al petrolio, sproporzionato nel caso specifico data la ridotta quantità di piattaforme coinvolte che lo estraggono, è per rafforzare questa immagine. Nessuna trivella quindi verrà fermata da questo referendum.
L’ambiente. Un dettaglio che pian piano è stato messo in secondo piano è che i quesiti iniziali fossero di più,
6 per la precisione, ma solo uno è passato allo scrutinio della
Corte Costituzionale. Dal punto di vista “verde” il sesto quesito era molto importante (divieto assoluto di nuove ispezioni entro le 12 miglia dalla costa e dalle zone protette) e il quesito referendario rimasto, considerando la scelta del Governo di vietare tutte le trivellazioni in questa area, ha purtroppo uno scarso impatto.
La questione economica e la necessità di queste risorse. La posizione del sì è molto confusa su questo punto. Mentre ci si impunta sul fatto che bisogna smettere di usare i combustibili fossili si cerca però di far passare il messaggio che poi tanto “non valga neanche la pena” allo Stato di estrarre dal mare, in quanto le royalties incassate sarebbero molto basse. Che lo Stato incassi molto poco sembra quasi una forzatura, necessaria per stimolare la pancia della gente, pronta a gridare di fronte a qualsiasi spreco di danaro pubblico. Si faccia una proposta di aumentare le royalties in maniera da poter ottenere più soldi – magari da reinvestire in progetti di salvaguardia del mare? – invece di lamentarsi che sono basse. In quel caso ne varrebbe la pena? Quella che secondo me è la posizione più criticabile del sì è quello che, sempre secondo la mia opinione, la popolazione ha percepito meglio: a noi servono il gas e il petrolio. Se, come conferma anche il comitato del sì, non cambierà nulla per anni, e poco abbastanza lentamente, non avrebbe più senso investire le risorse – tempo e attività politica – in altri progetti volti a ridurre i consumi?
Le regioni. Guardando gli altri quesiti referendari bocciati si nota ancora di più quanto alle Regioni interessate pesi il fatto che lo Stato, quindi il Governo, possa prevaricare il loro volere. Non sono neanche andato a vedere di che colore siano i consigli regionali coinvolti perché non credo che sia semplicemente un problema di parte politica, ma di potere. Sui siti dei referendari si pone molto l’accento sulla contrapposizione con Renzi, l’arcinemico per questa faccenda, questo è verissimo, ma credo che le Regioni siano più arrabbiate per il potere decisionale che finisce allo Stato.
I posti di lavoro. Questo punto non l’ho trattato finora. Idee assurde a parte, è chiaro che un poco alla volta i posti di lavoro di chi lavora nel campo dell’estrazione di petrolio e gas diventano a rischio. Questo però dovrebbe diventare una costante nel futuro: la spinta verso soluzioni alternative dovrebbe essere già presente e forte, ed essere uno stimolo per le tutte le aziende che sono coinvolte con l’energia. Ribadisco ancora che serve un progetto ad ampio respiro con tutte le parti coinvolte per avere risultati seri e importanti, non un referendum. Poi però la gente non deve lamentarsi degli impianti di pannelli solari, delle centrali eoliche o di eventuali nuove centrali idroelettriche. L’energia da qualche parte dobbiamo tirarla fuori. Ma non è solo quello: nuovi materiali e nuove tecnologie ci servono per uscire dall’era del petrolio. Però poi non lamentiamo dei soldi investiti nei progetti spaziali, che servono anche a questo. Spero di avervi aiutato a capire meglio, o almeno qualcosa in più, su questo referendum. Farsi una propria opinione su questioni importanti per la vita di un Paese dovrebbe venire naturale, ma spesso non ci dedichiamo molto tempo. Raramente esiste una posizione in assoluto giusta o una sbagliata su questioni economiche e politiche di questa portata e sarebbe meglio controllare direttamente l’operato delle amministrazioni locali e nazionali mentre queste esercitano i loro compiti piuttosto che stracciarsi le vesti in un secondo momento.