IL DIRITTO DI UCCIDERE/ La nuova guerra in un film che lancia domande Roberto Bernocchi
venerdì 9 settembre 2016
In un quartiere militarizzato alla periferia di Nairobi si incontrano, in un'abitazione privata, tre cellule terroristiche tra le più ricercate del mondo. Contemporaneamente, collegati attraverso droni spia, segue la scena una "war room" londinese, fatta di politici, avvocati e militari, pronta a intervenire, sganciando una bomba di precisione, capace di ridurre al minimo gli effetti collaterali sulla popolazione civile. Ma la presenza di una bambina innocente, proprio nei pressi del territorio su cui la bomba impatterebbe, renderà la decisione molto più difficile. Eye in the Sky (questo è il titolo originale de Il diritto di uccidere) è un film di guerra senza guerra. O meglio, è un film che racconta uno degli aspetti più straordinari, se mai questo aggettivo si può utilizzare riferito a questo tipo di eventi, della guerra contemporanea. La tecnologia. Il fronte non è più costituito da soldati, da corpi che si scontrano o territori contesi, ma in gran parte da piccoli droni, controllati a distanza. Droni di dimensioni impensabili, a forma di uccellino o di scarabeo, miracoli tecnologici capaci di insinuarsi nelle abitazioni nemiche per scoprire chi le abita.
Dall'altra parte della telecamera, seduti in poltrona, una platea ristretta di militari e di uomini di potere, appoggiati a una scrivania, collegati a un computer, pronti a impartire la vita o la morte in diretta. La guerra così diventa un film, filtrata da uno schermo. Con attori, reali, e spettatori, registi di un destino. Una guerra da scrivere a sangue freddo. In questo nuovo modo di combattere, si insinua una selva di dubbi che mettono alla prova le procedure, ribaltando la logica dei numeri e sfidando, nel profondo, l'umana compassione. C'è un tema militare, legale e politico. L'ok allo sgancio di una bomba deve soddisfare gli equilibri internazionali, l'opinione pubblica, la strategia militare e, in ultimo, deve placare i bisogni emotivi del "salotto di potere", trasformando il senso di colpa in un quanto mai opportuno danno collaterale.
E a dire il vero, per come è raccontato il film, nonostante il tentativo di farci avvicinare e affezionare alle vittime innocenti, il danno collaterale sembra davvero poca cosa rispetto al presagio terroristico, che spinge all'azione. Gavin Hood ci tiene incollati al drone, con la sensazione che, da un momento all'altro, potrebbe essere troppo tardi. Dall'alto, l'area su cui sganciare la bomba, diventa un microcosmo privato di storie rubate. Vite appese a un pulsante schiacciato o a un bivio in strada, che può fare la differenza tra vivere e morire.In questo spettacolo di guerra, Hood ci mostra il teatrino del potere, perso nell'ordinario della politica di rappresentanza o della codardia decisionale. Tra queste persone Helen Mirren, comandante decisionista dalle idee molto chiare, conquista la scena, sfidando le regole. Un buon film che, con qualche superflua ironia, mette in campo interrogativi stringenti che trovano risposte forse un po' troppo univoche e semplificatorie. Ma il sasso, ben più grande di un sassolino, lo lancia. E trova terreno fertile di riflessione, dominata dalle tragiche notizie di attualità.