Questo speciale mi ronzava in testa da un po’. Parlare dei nuovi classici, raccontare oggi quei titoli che indipendentemente dal genere e dal budget sono riusciti, indicativamente dal 2010 in poi (più in generale anche più indietro volendo, dall’inizio generazione PS3/360), ad entrare nel tessuto culturale del videogioco e ricamarci le proprie iniziali, riconosciuti come punti di riferimento capaci di influenzare e ispirare ciò che è venuto dopo, settare nuovi standard, proporre nuove e vincenti idee. Qualche riga per spiegarvi quello che intendo con “neoclassico videoludico” che tutto sommato avrei potuto risparmiarmi, scrivendo semplicemente tre parole: Super Meat Boy.
Cresciuto professionalmente in quel brodo primordiale che era il panorama dei flash game di inizio millennio, quando essere indie significava davvero essere artigiani punk del codice, autori underground, Edmund McMillen è riuscito a farsi un nome sfornando titoli a ripetizione dal 2001 al 2009, alternando progetti minori ad opere più strutturate create per Windows in collaborazione con altri sviluppatori. Come ad esempio The Gish (2004), platform basato sulla fisica in cui si controllava una palla di catrame, capace di mettere già in mostra quelli che sarebbero stati i tratti distintivi della sua filosofia, con livelli brevi dal design illuminato, un gameplay consistente e un’estetica unica, a tratti repulsiva, creepy, estremamente d’impatto. Una produzione instancabile e dalla qualità media che non poteva passare inosservata, attirando le attenzioni di Microsoft e Nintendo che, dopo l’uscita dell’originale Meat Boy (2008), gli commissionarono un titolo per arricchire i rispettivi servizi di digital delivery (che cominciavano a ospitare capolavori come Braid, Machinarium, Minecraft e Spelunky), aspettandosi una vera e propria hit (anche se su WiiWare non sarebbe mai uscito per vicissitudini di natura tecnica); il risultato andò anche oltre le aspettative. Super Meat Boy uscì nel 2010 su Live Arcade e fu deflagrante come una bomba atomica il cui fallout creativo avrebbe contaminato tutto ciò che gli stava intorno. Può sembrare iconoclasta ma non è così azzardato parlare dell’opera di McMillen come il Super Mario Bros. di questo secolo. La portata sul genere fu devastante.

Super Meat Boy ha dato una verticalità inedita al genere, infrangendo spesso il dogma del side scrolling da sinistra verso destra.
Il level design super compresso (e spesso verticale) è l’habitat ideale per Meat Boy, un cubo di carne e nervi nato per dominare il platform, grondando sangue e rabbia per il rapimento della sua amata, tentativo dopo tentativo, preferendo il trial & error (con respawn istantaneo) ai checkpoint, trasformando la frustrazione in godimento. Stage risolvibili in una manciata di secondi una volta capiti, esaltando il cronometro attraverso cristallini sfoggi di tecnica ludica e perseveranza, per un coefficiente di difficoltà non adatto ai deboli di cuore o di pazienza, con un uso massiccio e iconico del salto a parete, da dominare con l’inerzia, grazie a un peso specifico del personaggio semplicemente perfetto, bilanciatissimo, decisamente ispirato e perfezionato partendo proprio dal capolavoro di Miyamoto, idolo del designer.
MCMILLEN AVEVA CAMBIATO LE REGOLE E I RITMI DEL PLATFORM SENZA CHIEDERE IL PERMESSO A NESSUNO
L’INCENDIARA INFLUENZA DI SUPER MEAT BOY
Un passato e un’indole artistica (disegnare mostri è sempre stata una delle sue passioni) altamente infiammabili che avrebbero influenzato un numero spropositato di opere, con svariati autori che avrebbero attinto da Super Meat Boy per sdoganare un certo tipo di gameplay e/o dare continuità a una corrente pulp che, anche grazie alla Devolver dei primi tempi, avrebbe incendiato il mercato digitale videoludico come la Roma di Nerone. Da una parte i grandi sviluppatori non poterono ignorare il successo del ragazzo di carne, affascinando calibri insospettabili dell’industria, da Michel Ancel con Rayman Origins a Nintendo stessa, che col diabolico DLC (e titolo stand alone) New Super Luigi U avrebbe riabbracciato il platforming hardcore dopo il leggendario e spietato Super Mario Bros.: The Lost Levels (oltretutto chi ha vissuto un po’ i due Super Mario Maker e la loro community avrà notato la deriva estrema che dominava i livelli condivisi dagli utenti, confermando un certo sentimento popolare), mentre dall’altra fu un semaforo verde per tutta la scena indie in ebollizione.

Spesso si tende a mettere la giocabilità dell’opera di McMillen davanti alla direzione artistica, che ha comunque una personalità fortissima.
L’extreme platform divenne un fondamento di gameplay in opere come Guacamelee!, Celeste, veri e propri emuli come Okunoka ma anche Hollow Knight e addirittura Ori ne rimasero invischiati, ponendo un’enfasi inedita sulle fasi platform rispetto ai metroidvania classici. Ma più in generale fu la filosofia di gameplay, che univa brutalità di gioco e violenza visiva a una velocità d’esecuzione inedita, ad essere presa come esempio per giochi extra-genere come Hotline Miami, Ape Out, Katana Zero (che ne prende in prestito anche l’idea dei replay di fine stage), ScourgeBringer e tantissimi altri. Questo anche perché l’avvento di Super Meat Boy coincise con un comune malcontento del pubblico più esperto, che cominciava a ribellarsi all’idea di giochi sempre più accessibili, guidati e cinematografici, invocando un ritorno alla “old school”, al sudore.
Team Meat soddisfò questa richiesta e aprì la strada a tutti gli altri, dando inizio a una new wave arcade che non si è ancora esaurita, esattamente come dall’altra parte, quella 3D, e in tutt’altro genere, quello degli action RPG, stava facendo From Software con Demon’s Souls (2009), praticamente in contemporanea. 11 anni dopo il capolavoro di McMillen è ancora un metro di paragone, un’icona dissacrante, una reminiscenza che spesso si manifesta durante la nostra fetta di gameplay quotidiano. Un neoclassico appunto, destinato a rimanere tale, capace ancora di farci sanguinare i polpastrelli ad ogni re-play, come fosse la prima volta; stimmate di giocabilità che non cicatrizzano mai in chi ha avuto il piacere di giocarci almeno una volta nella vita.