San Francisco, 1924, una città in una baia bellissima, che vive con fervore i cosiddetti anni ruggenti. Un periodo florido fatto di ampia disponibilità economica che alimenta la frivolezza delle grandi feste, come quelle raccontate ne Il grande Gatsby, ma che al contempo si mostra sinuosamente con l’arte decò, vede le donne combattere le prime vere battaglie per i diritti sociali e scopre trasversalmente il fenomeno della musica jazz. Dietro le luci accecanti riflesse dalle paillette dei vestiti charleston, però, si stagliano le ombre lunghe della criminalità organizzata, che sfrutta soprattutto il regime di proibizionismo per costruire imperi basati sul contrabbando. Le contraddizioni di quegli anni eccessivi hanno rappresentato da sempre terreno fertile per ogni forma di storytelling e il noir nasce proprio per esplorare i forti contrasti del periodo, attraverso gialli metropolitani a tempo di jazz. A Case of Distrust è a tutti gli effetti un racconto interattivo di genere, ed è il primo titolo indipendente sviluppato da Ben Wander, ex BioWare e Visceral Games.
80 DAYS NOIR
Raramente ho incontrato un press kit di un autore che descrivesse con così incredibile efficacia le sue fonti di ispirazione. Wander definisce la sua opera prima come un’esperienza narrativa sulla falsariga di 80 Days, con elementi presi dalla serie Phoenix Wright, e non potrebbe esserci definizione migliore. Dal piccolo capolavoro di Inkle riprende la struttura da libro game di nuova generazione, in cui si completano i paragrafi in tempo reale generando un intreccio fluido e ricco di scelte, dove gameplay e storytelling coincidono, tanto che sia il tutorial sia il lore necessario a contestualizzare l’avventura sono espressi attraverso espedienti narrativi. Dal simulatore di avvocatura di Capcom, invece, recupera il senso delle indagini e la meccanica di contraddizione degli interlocutori, spostando l’attenzione sulla raccolta di indizi, anche perché protagonista della storia, in questo caso, è una detective privata, ex poliziotta, con una backstory che ovviamente va a toccare temi roventi quali l’integrazione sociale e i pregiudizi contro le donne in carriera.
A Case of Distrust è a tutti gli effetti un racconto interattivo di genere
ELEMENTARE MR. GREEN
Durante le indagini abbiamo a disposizione due fidati alleati, ovvero il taccuino dove Phyllis annota sistematicamente tutti i dettagli salienti e il barista di fiducia, Frankie, in grado di aiutarci nei momenti in cui non sappiamo dove sbattere la testa. Tra tabagismo, qualche drink di troppo e una quantità spropositata di dialoghi, A Case of Distrust è un’avventura appassionante, scritta molto bene e che ha un sistema di conversazione e ricerca degli indizi che unisce egregiamente l’anima da punta e clicca a una visione assolutamente contemporanea delle meccaniche da libro game. Ogni scoperta rappresenta una nota sul taccuino e ogni riga degli appunti può essere utilizzata nei dialoghi per scardinare le posizioni degli indagati o scoprire qualche nozione interessante.
A Case of Distrust è particolarmente affine anche alle meccaniche di due giochi da tavolo, ovvero Cluedo e Sherlock Holmes
La principale riguarda il rapporto con i suddetti cliché, che – pur senza condizionare la narrazione – finiscono per imboccare troppo semplicemente il giocatore nel momento decisivo del caso: individuare il colpevole è fin troppo semplice, tanto che si passa l’ultima parte del gioco a cercare di forzare il sistema per accelerare il processo d’accusa. Di contro, la mancanza di una cornice temporale che limiti il giocatore o di un vero e proprio elemento di sfida (come invece accade nel giochi da tavolo di Sherlock Holmes) fa perdere un po’ di mordente, e non si avverte lo stress da indagine che la narrazione vorrebbe invece comunicare. Detto ciò, la buona scrittura, la presenza di un paio di colpi di scena e la piacevolissima cornice produttiva regalano comunque un’esperienza originale e interessante.
A Case of Distrust è un esempio molto valido di avventura narrativa con atmosfere noir. La storia è ben scritta, lo stile estetico è davvero fantastico e – al netto di un paio di passaggi fin troppo meccanici e scontati – l’opera prima di Ben Wander restituisce in maniera egregia i ruggenti anni ’20, con tutti i suoi contrasti a ritmo di jazz.