A Way Out - Recensione

PC PS4 Xbox One

Raccontare A Way Out in una recensione è difficile, così come lo è analizzare il complesso dei suoi elementi: fattori narrativi si mescolano a sezioni giocabili con stili e meccaniche differenti, che certo rimangono al servizio della storia, ma rendono anche il titolo di Josef Fares e Hazelight Studios molto più “giocabile” di quanto preventivato. In una simile situazione, persino le diverse sezioni di gameplay introdotte possono essere equiparate a spoiler, motivo per cui invito i più sensibili a recarsi in zona commento senza troppo indugiare, tenendo comunque presente il mio impegno a disinnescare le rivelazioni più esplosive. D’altra parte, a lato delle dinamiche di condivisione dell’avventura, è proprio la ricchezza nella composizione della struttura giocabile ad avermi rapito positivamente, peraltro con una potenza che francamente (considerate le mie consuete preferenze in fatto di videogiochi, più votate all’azione pura) non mi aspettavo. Quello di Fares è un esercizio di equilibrismo al servizio della trama, capace di prendere efficacemente per mano una larga gamma di giocatori, compresi quelli dal grilletto facile come me.

EVASIONE DAL MAINSTREAM

L’ultima frase non deve far pensare a un’impropria rivoluzione: come lo stesso Fares ha più volte sottolineato, A Way Out non è un titolo per amanti di shooter e giochi d’azione in senso classico. Al contrario, pur aprendo a nuove fasce di giocatori per tematiche e sezioni di gameplay, continua a rappresentare qualcosa di diverso nell’intero panorama dei videogiochi, tanto è forte il mix di meccaniche in funzione del racconto. La storia vede protagonisti due personaggi molto differenti per carattere e background, che si ritrovano sullo stesso bus durante un trasferimento di carcerati: sulla testa di Vincent pende una grave imputazione, quella di omicidio aggravato, che tuttavia fa il paio con una laurea e un lavoro sostanzialmente normale; Leo, invece, è finito in galera per crimini meno gravi, ma ha anche problemi ben più marcati in termini di inserimento sociale, complice un’intera esistenza vissuta sguazzando nei bassifondi. Ai due giocatori in partita, in schermo condiviso o tra amici di Origin (uno dei quali può anche non possedere il gioco, un po’ come accadeva nelle opzioni co-op di Far Cry 4), andrà il compito di interpretare entrambi i personaggi, orientandosi su una gamma di comportamenti più smargiassi o, al contrario, su una maggiore e più pacata componente razionale. Nella fase iniziale, piuttosto corposa e vissuta interamente nel carcere, a farla da padrone sono gli enigmi ambientali e l’introduzione alle meccaniche stealth, accanto a specifici nodi che riguardano l’intera esperienza e costringono a sincronizzare i comandi del pad da una parte o dall’altra, con uno spettro di conseguenze sempre più marcate con il procedere della storia.

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A Way Out non è un titolo per amanti di shooter e giochi d’azione in senso classico

Sia come sia, gli intermezzi narrativi e le stesse azioni servono a evidenziare le motivazioni comuni dei personaggi, inizialmente solo per scopi pratici e poi, con forza sempre maggiore, per qualcosa che assomiglierà sempre di più a un’amicizia. Innanzitutto, tanto Leo quanto Vincent cercano vendetta nei confronti dello stesso bieco malavitoso, Harvey, seppur sulla base di tradimenti e situazioni molto differenti; paradossalmente, però, proprio il diverso modo di percepire la rabbia e il desiderio di riscatto, non necessariamente in forma più mite dalla parte di Vincent, diventano il veicolo per descrivere con crescente precisione le due personalità, coinvolgendo allo stesso tempo chi è dall’altra parte dello schermo. Un processo progressivo ma implacabile, in cui nessun elemento, tra momenti da avventura à la Telltale, enigmi cooperativi, azione diretta e scrittura dei dialoghi, prevarica l’altro nello spirito complessivo di A Way Out, dove la selezione delle regole non è meno importante della precisione delle dosi.

CIAO HARVEY, STIAMO ARRIVANDO

Sotto il profilo squisitamente ludico, il momento dell’evasione rappresenta il più importante dell’intera esperienza e funge da snodo per diramare con forza sempre maggiore (e moltiplicare, in una certa misura) gli ingredienti di A Way Out. Lo spazio per l’adrenalina è più forte, così come l’altalenarsi di sezioni che spingono alla sincronia i due giocatori in forme abbastanza originali o anche, a seconda del caso, in situazioni da normale titolo d’azione; allo stesso tempo, sono più larghi e articolati i passaggi puramente empatici e descrittivi, che non dimenticano di farci tornare sui personaggi al momento giusto. In mezzo alle pennellate troviamo conversazioni opzionali, strizzate d’occhio a vari film e persino minigiochi contestuali, in cui Vincent e Leo possono cimentarsi in sfide di pura abilità. Sul lato maggiormente action, invece, non mancano le sequenze con mezzi di vario tipo, e neppure le “inedite” (almeno, rispetto a Brothers – A Tale of Two Sons) azioni armi in pugno, comunque mai gratuite o fini a loro stesse. In tutti i casi, l’unico risultato ricercato e ottenuto, talvolta con una tenacia tecnica che ha del commovente, è quello di donare ulteriori motivi per condividere opinioni fuori dallo schermo, sulle decisioni dei personaggi o anche, in modo sempre più forte, su quali sarebbero state le conseguenze delle differenti decisioni (al termine della prima partita viene resa disponibile l’intera gamma di missioni, con un grado di rigiocabilità elevato e consequenziale).

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Le sezioni stealth ricorrono parecchio nell’alchimia di A Way Out

Le sezioni stealth ricorrono parecchio nell’alchimia di A Way Out, forse persino troppo, ma anche in questi casi abbiamo a che fare con una serie di elementi (la barra d’attenzione sui nemici) e cliché (gli abbattimenti in sincrono, tra i tanti) che tendono a completare il disegno, e non a prenderne il sopravvento. Qualcosa di simile riguarda la rete dei possibili epiloghi, quando l’obiettivo “fotografico” dell’autore si apre al massimo e contempla possibilità ancora più smaccatamente d’azione, in qualche modo necessarie al pari delle sequenze narrative di stampo cinematografico. L’incipit che accompagna i giocatori per tutta la storia – narrata in flashback per una manciata di ore – inizia a muoversi come un dipinto che non ha più ragioni per restare immobile, avendo ormai gli strumenti per offrire la massima varietà possibile. Ed è così che, dopo circa sette ore, i due giocatori si troveranno ancora immersi nel destino di Leo e Vincent, fatalmente attirati dall’opportunità di rimettere mano alle decisioni anche dopo il finale.

LA VIA D’USCITA C’È, ED È PURE BELLA

Se la passione, nel mio caso inaspettatamente, ha vinto sulla freddezza dell’analisi, non si può nemmeno dire che A Way Out sia un’opera perfetta. Per gran parte del gioco occorre sopportare una vasta selezione di Quick Time Event, ovviamente nella direzione del co-op, e allo stesso tempo guardare con più o meno benevolenza all’uso di tanti registri d’azione, singolarmente inferiori ai modelli a cui si ispirano. Sbavature e imprecisioni, ad esempio sulle animazioni o sul sistema dei danni, non si possono ignorare ma vengono comunque lenite dal coraggio produttivo, dall’aver voluto varcare determinati confini solo per costruire un quadro completo, dove l’azione fa parte del racconto al pari dei dialoghi. A mio modo di vedere, il top dell’esperienza viene raggiunto su schermo condiviso, complice una vicinanza fisica che può sfociare in gesti sguaiati e occhiate complici, in seguito a una perfetta intesa o, al contrario, al disappunto per una conseguenza coerente ma non desiderata.

il top viene raggiunto su schermo condiviso

Chiaramente devo tenere la bocca strettamente cucita sul finale, ma posso almeno dire che quello di A Way Out si è rivelato uno degli epiloghi più imprevedibili e coinvolgenti che abbia giocato da un po’ di tempo a questa parte, a maggior ragione per la consapevolezza di poterci arrivare con varie e rilevanti sfumature. Quasi un inaspettato regalo, a otto anni dalla delusione per Kane & Lynch: Dog Days.

Non so se i cultori di Brothers – A Tale of Two Sons ameranno allo stesso modo A Way Out, ma non fa parte dei miei problemi: Josef Fares ha allungato la mano a uno spettro più ampio di giocatori, e per farlo è stato ancora più ardito nell’introdurre gli ingredienti del gameplay. Fra questi ci sono diverse possibilità d’azione che, almeno nel commento, non voglio dettagliare: ciò che è certo, almeno ai miei occhi, è che tutte queste opportunità si vanno a unire al resto (enigmi co-op, scelte attive sul racconto) per allargare la descrizione del quadro prima che per prenderne il sopravvento. Si tratta di un’opera complessa, non sempre inappuntabile, la cui percentuale di riuscita si amplia in relazione al coraggio dimostrato. Chapeau.

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Pro

  • Forte empatia con i personaggi.
  • Gameplay ricco, senza mai perdere il baricentro.
  • Elevata rigiocabilità.
  • Epilogo lungo, cangiante e ben scritto.

Contro

  • La ricchezza, talvolta, viene pagata sul fronte della precisione degli elementi.
  • Animazioni parecchio legnose.
  • Piccoli buchi di coerenza in alcune direzioni della trama.
8.6

Più che buono

Marietto è così dentro alla sci-fi che non riesce a trovare la strada per uscirne. Per lui i videogiochi sono proprio questo, una porta per accedere a un pezzo di fantascienza che si realizza qui e ora, senza aspettare la fine del mondo.

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