Fa strano vedere un prodotto come Bound poco spinto da promozioni e marketing, gettato nella mischia nel bel mezzo dell’agosto e con la gamescom alle porte. Un po’ come se Sony si vergognasse della sua creatura, che invece, nonostante alcuni problemi di cui vi scriverò tra qualche riga, ha più di qualcosa da dire nel panorama dei videogiochi che puntano sulla suggestione e sull’atmosfera. Da questo punto di vista Bound non nasconde di ispirarsi ai titoli di thatgamecompany, recuperando tratti estetici anche da robe come SUPERHOT (non per niente i due sviluppatori qui chiamati in causa compaiono nei credits), ma comunque distinguendosi con uno stile tutto suo, che certo può affascinare o anche ammorbare a seconda della predisposizione del giocatore all’uso smodato di colori e follia. A tratti Bound pare quasi un prodotto della mente di Jeff Minter, non fosse che il nostro guru non si sognerebbe mai di partorire un videogioco dove la protagonista è una ballerina senza volto.
LEGAMI AFFETTIVI
Bound inizia mettendoci nei panni di una giovane donna incinta, intenta a passeggiare lungo una spiaggia. Sono i ricordi della sua infanzia a ergersi a protagonisti immediati della vicenda: attraverso essi la protagonista costruisce nella sua mente un mondo fittizio che noi dobbiamo attraversare e “salvare” prendendo il controllo di una figura femminile, i cui movimenti sono scanditi da volteggi e passi sulle punte dei piedi. La danza classica è quindi l’argomento centrale di Bound, visto che attraverso di essa il nostro personaggio può liberarsi dalla morsa dei nemici o interagire con alcune componenti dello scenario.
A voler ben vedere, l’esperienza ludica proposta da Bound è quasi tutta qui: si passeggia per il mondo di gioco seguendo la strada indicata dagli sviluppatori, si affrontano i pericoli a colpi di ballo e si saltella di qua e di là nelle porzioni di stage impostate a mo’ di platform. Queste ultime, a dirla tutta, incarnano l’anello debole del titolo di Plastic e Santa Monica Studio, imprecise come sono nella gestione della telecamera e nel controllo dei balzi: in Bound, di fatto, si muore solo cadendo nel vuoto, cosa che accade davvero troppo spesso, e quasi mai per demeriti del giocatore. Peraltro, il rischio di precipitare amaramente non è alto solo saltando, ma anche danzando: col tasto R2 la nostra protagonista si produce in volteggi sul posto, ma aggiungendo altri tasti alla combinazione le evoluzioni diventano più articolate e contemplano anche piccoli spostamenti, che in presenza di un precipizio rischiano di portare alla morte senza che noi si possa intervenire in alcun modo prima che sia terminata l’animazione. Certo, il respawn è immediato e si può ritentare subito la sorte, ma alla lunga la frustrazione prende un po’ il sopravvento e, soprattutto, spezza l’atmosfera, in particolare qualora si cerchi di recuperare il maggior numero di cubetti, ovvero dei collezionabili sparsi profusamente in giro, utili per lo più a rimpolpare le classifiche della modalità speedrun.
È innegabile come la testata d’angolo di Bound poggi sulla direzione artistica
SOGNI DI BAMBINA
Al di là degli aspetti di mero gameplay più o meno riusciti, laddove Bound talvolta incespica, è innegabile come la testata d’angolo del gioco di Plastic poggi sulla direzione artistica, a proposito della quale davvero c’è poco da dire. Il mondo di Bound è un coacervo di suggestioni a metà tra l’onirico e il visionario, nelle quali ben si innestano di tanto in tanto alcuni stacchi che ci mostrano il passato della futura mamma, momenti inizialmente sovrapponibili con difficoltà alle porzioni di gioco vero e proprio, certo, ma che diventano chiarissimi sul finale, tanto che una seconda run viene spontaneo percorrerla anche solo per cogliere i riferimenti che ci siamo persi per strada cammin facendo. Il prossimo 13 ottobre, poi, con la messa in commercio di PlayStation VR, Bound avrà una patch che lo renderà pienamente compatibile con la periferica di Realtà Virtuale di Sony: una scusa come un’altra, al di là della speedrun, per rigiocarselo ancora una volta.
Lodevole, infine, la presenza di un articolato photo mode, che rende giustizia alle atmosfere surreali di Bound e che i più bravi sapranno sicuramente sfruttare con profitto. Anche in questo caso, non vedo l’ora di mettere gli occhi sulle vostre opere, quindi datevi da fare.
Bound è un titolo visionario e dalla direzione artistica follemente ispirata; percorrerne le suggestioni viene pertanto facile a chi sia alla ricerca di scosse emozionali che, a tratti, sfociano perfino nella sinestesia. È un peccato, quindi, che il titolo di Plastic e Santa Monica Studio sia afflitto da problemucci di gameplay non proprio secondari, tra cui un malriuscito sistema di controllo che in alcuni frangenti porta alla morte della protagonista, senza colpe di chi impugna il joypad: con un po’ più di attenzione ci saremmo trovati di fronte a un prodotto in grado di competere con Journey e Abzû, anziché “solo” a un buon videogioco.