Devo dire la verità: ero preoccupato. Preoccupatissimo. Ci sono pochi giochi a cui sono legato, emotivamente e non solo, come i primi due DooM di id Software. Chi mi conosce, sa che sono abbastanza folle da giocarci ancora, ogni tanto, e sa quanto li adori. Il reboot di una serie come questa era tanto difficile da imbroccare quanto facilissimo da sbagliare. I timori e le preoccupazioni erano ulteriormente accentuate da un comparto multiplayer (provato nella beta chiusa di qualche settimana fa) che mi aveva convinto solo in parte, e che comunque ha ben poco a che vedere con l’originale, e dalla totale assenza di qualsivoglia informazione e anticipazione della componente single player a ridosso dell’uscita del gioco, quasi che Bethesda avesse timore a svelare le carte in anticipo, temendo di non avere una mano vincente. Niente di più sbagliato.
UN’EPIFANIA INFERNALE
Alla fine di una battaglia contro cacodemoni, mancubus e minotauri, ho tirato un sospiro di sollievo. In quell’esatto momento ho capito che il nuovo DOOM era bellissimo
Il gioco parte bene, e convince fin dalle prime battute, ma è stato a metà della campagna single player, alla fine di una battaglia con orde di cacodemoni, mancubus e baroni dell’Inferno, in una mappa aperta tra le rocce rosse di Marte, che ho tirato un sospiro di sollievo. In quell’esatto momento ho capito che il nuovo DOOM era bellissimo. Avevo appena finito di massacrare l’ultimo mostro cornuto “strafe-andogli” attorno come un folle, sparandogli nella schiena e in faccia con il double shotgun, a poco meno di due metri, mentre lui cercava di starmi dietro e tirarmi le sue orrende palle verdi. Pochi istanti prima, la gatling si era sbarazzata di un paio di mancubus che da lontano cercavano di colpirmi sparandomi le loro palle di fuoco, che ho evitato senza troppa fatica. E con il fucile al plasma ho polverizzato tre revenant (gli scheletri, come li chiamavamo noi) che cercavano di bersagliarmi con i loro velocissimi missili. Il cacodemone, invece, me lo sono giocato con la motosega, e buonanotte al secchio. Ed è tutta qui, brutale e semplice, la formula di DOOM, uguale a quella di vent’anni fa, ma riletta in chiave moderna: tante armi diverse per efficacia e risultato, nemici che non danno tregua ma al tempo stesso lasciano sufficiente libertà di manovra per scegliere la tattica migliore per sbarazzarsene, scontri dal ritmo indiavolato che fanno schizzare alle stelle la pressione sanguigna, che arrivi alla fine col cuore in gola e le mani che tremano per la tensione. E la soddisfazione di tirare un colpo di double shotgun in faccia a un imp mentre stai atterrando da un salto ruotando su te stesso è semplicemente impagabile, oggi come allora.
BRUTAL DOOM
Il marine di DOOM è uno che non si pone troppe domande, se non quella di capire a chi sparare per primo
SIAMO TUTTI LIBRI DI SANGUE
Dal punto di vista del gameplay puro, id Software ha davvero portato a casa un risultato straordinario, addirittura superiore a quello – già ottimo – visto con il reboot di Wolfenstein, riprendendo gli elementi caratteristici “old school” dell’originale, adattandoli in maniera sublime agli standard moderni. Perché ci sono gli stessi mostri di due lustri fa, che nella stragrande maggioranza dei casi lanciano colpi che possono essere evitati con accurati strafe laterali, ma sono più veloci e dotati di una mobilità maggiore; e sono tanti, davvero tanti. Ci sono le stesse armi, tante, tutte accessibili in ogni istante, altro che loadout da due alla volta, senza necessità di ricaricarle e con in più la possibilità di modificarle e potenziarle, senza stravolgerne l’essenza ma regalando un piacevole senso di progressione cui oggi ormai non sappiamo fare a meno, e lo stesso vale per armatura e rune di potenziamento assortite (complici un ottimo sistema di upgrade legato a obiettivi opzionali e a sfide extra-partita nascoste nei livelli); ci sono le chiavi colorate da scovare in giro per i livelli, tipicamente appese al corpo devastato di qualche povero scienziato dilaniato dai demoni, con tanto di mappa da studiarsi in lungo e in largo, ma comunque senza troppo backtracking.
Le Glory Kill trasformano ogni scontro in una macabra danza di ultra-violenza
La principale novità (e concessione alla modernità) del gameplay di DOOM riguarda le Glory Kill (o Uccisioni Epiche, nell’eccellente traduzione italiana del gioco), ossia la possibilità di fare a brandelli, letteralmente, i nemici storditi dopo essere stati investiti da una raffica di piombo, che possono essere eseguite tanto sui demoni più sfigati quanto su quelli più ingombranti, da posizioni diverse, con animazioni una più brutale e violenta dell’altra. Al di là dello spettacolo visivo offerto, che regala sempre grande soddisfazione, le Glory Kill regalano qualche dose di curativo extra che si rivela essenziale negli scontri più affollati, specialmente verso il finale, ma soprattutto contribuiscono a rendere molto più fluidi gli scontri, trasformandoli in una macabra danza di ultra-violenza, al punto che ci si trova a squartare cacodemoni e imp più per il gusto di farlo, per l’effetto coreografico in sé che non per qualche punto salute (che ovviamente non si rigenera automaticamente, ma solo con i medikit sparsi qua e là).
MARTE – INFERNO, ANDATA E RITORNO
L’approccio a pistole spianate è quello meno efficace: le arene vanno studiate bene, anche a costo di sacrificare una o due vite
CARTOLINE DALL’INFERNO
DOOM è il primo titolo di Bethesda a usare il nuovo id Tech 6 Engine, motore OpenGL/Vulkan che vedremo presto sui nuovi titoli della casa americana. I passi in avanti rispetto all’iterazione precedente sono davvero notevoli, e regalano – almeno su PC – uno degli shooter più belli che si siano mai visti, con riflessi, luci volumetriche e altri effetti ambientali come il vento e le scintille, un rendering fisico dei modelli e una qualità del dettaglio davvero notevoli; il colpo d’occhio migliore arriva dalle mappe all’aperto, ovviamente, che si tratti di Marte o dell’Inferno, con sangue, teschi, pentacoli e gore gettato in faccia al giocatore in ogni possibile frangente, con quella sana dose di blasfemia tipica di id Software, e di cui sentivo tanto la mancanza.
Le mappe dell’Inferno sono infarcite di sangue, teschi, pentacoli e quella sana dose di blasfemia tipica di id Software
Davvero una piacevole e inaspettata sorpresa la qualità delle animazioni, sia quelle di combattimento dei nemici che i “siparietti” delle Glory Kill, sempre molto fluide e perfettamente legate tra loro. Il gioco richiede un PC discretamente pompato per dare il massimo, ma ci sono comunque abbastanza opzioni su cui smanettare in grado di regalare una buona fluidità anche a configurazioni meno potenti. Tra le varie impostazioni segnalo quelle per regolare il FOV, disabilitare le aberrazioni cromatiche e la grana da pellicola, oltre alla possibilità di scegliere tre diverse modalità di rendering. C’è qualche problema di stabilità con le GPU AMD, che nel mio caso hanno portato a diversi crash e relativo ritorno al desktop durante le partite, che mi aspetto possano venir sistemati nelle prossime settimane con driver e patch ad hoc.
NON È TUTTO SANGUE QUEL CHE LUCCICA
Difetti? Multiplayer a parte, su cui mi soffermo più avanti, ho già accennato a una certa ripetitività nel modo in cui si presentano i nemici nelle arene; a questo aggiungo che la parte finale del gioco tende ad andare un po’ troppo per le lunghe, senza guizzi narrativi che giustifichino un continuo avanti e indietro tra Marte e l’Inferno, trascinando un po’ la partita, che si porta a casa in una quindicina di intense ore di gioco. Intendiamoci, non è che uno si annoi a massacrare demoni, ma si avverte una certa stanchezza di fondo (e un finale forse un po’ troppo buttato via). Per finire, ma qui si scende forse fin troppo nel personale e nel modo in cui uno è abituato a giocare, ho sofferto parecchio l’assenza dei quick save: i checkpoint vanno benissimo, non sono neanche disposti male, ma personalmente trovo molto più comodo riprendere la partita un secondo prima dello scontro in cui sono appena morto, che rifarmi duecento metri a raccattare curativi e munizioni e poi gettarmi nell’arena.
MULTIPLAYER E SNAPMAP
Del multiplayer ho già avuto modo di scrivere in lungo e in largo qualche settimana fa, in occasione della beta chiusa, e dopo averci passato sopra qualche ulteriore ora non posso che confermare tutto quanto scritto allora, aggiungendoci solo che si tratta probabilmente dell’aspetto meno riuscito del gioco. La corsa relativamente lenta del marine, la assurda limitazione del loadout che strizza l’occhio ai giocatori di Call of Duty, una generale scarsa ottimizzazione grafica (il balzo all’indietro rispetto al single è notevole, e le performance peggiori), fanno quasi impallidire il gioco online rispetto alla campagna principale.
Il gioco online è l’aspetto meno convincente di DOOM, e quasi impallidisce nel confronto con il single player
DOOM è tornato, e non potrei essere più contento. Brutale, ultra-violento, iper-cinetico e capace di far andare l’adrenalina in circolo come non mi accadeva da tempo. Il gameplay è costruito sui solidissimi pilatri dei suoi precedessori di oltre vent’anni fa, opportunamente svecchiati con elementi ormai irrinunciabili nel 2016, ma comunque intimamente connessi a un level design davvero ispirato, e che traccia una nuova strada per il genere degli FPS. Il gioco si porta in dote un nuovo motore grafico, e con esso uno degli shooter più belli a vedersi di quest’ultimo periodo, almeno su PC, e sufficientemente scalabile da permettere a chiunque di andare all’Inferno ad ammazzare un po’ di demoni in tutta tranquillità. Spiace solo per il multiplayer, davvero non all’altezza dell’esperienza in solitaria, mentre sono ottimista sul fatto che l’editor SnapMap saprà regalarci grandi soddisfazioni nei mesi a venire, oltre a un’ottima scusa per continuare a giocare a DOOM. E adesso scusatemi, me ne torno all’Inferno.