Il Game Dev in Italia – Prima Parte

Questa inchiesta in due parti raccoglie una serie di interviste che si sono tenute fra il gennaio e il luglio 2024. È poi stata pubblicata, in forma leggermente ridotta per esigenze di pubblicazione, su TGM 408, 409 e 410. Anche se alcuni esempi portati nel testo possono essere meno attuali al giorno d’oggi, nel complesso la riteniamo un valido strumento per aiutare a capire meglio alcuni aspetti dell’industria videoludica.

Il 2023 e il 2024 sono stati anni pessimi per chi lavora nel settore dei videogiochi. Fra il gennaio 2023 e il luglio 2024, migliaia e migliaia di persone sono state licenziate, studi parecchio amati hanno visto i loro organici decurtati, loro progetti sono stati cancellati, e le chiusure non sono state infrequenti; e pur se a una velocità meno impressionante, il trend sembra non essersi fermato nemmeno in questo inizio 2025. Su The Games Machine abbiamo parlato spesso di questi avvenimenti sia sulla rivista che sul sito, cercando di puntare la luce su ciò che stava succedendo e di offrire possibili spiegazioni e ipotesi sul futuro. Però, appunto, ne abbiamo parlato noi della redazione; gente che, nonostante la vicinanza, sta pur sempre fuori dal contesto in cui avvengono questi fatti. Proprio da questa considerazione è partita l’idea di intervistare vari professionisti italiani che lavorano nell’industria dei videogiochi, in Italia o all’estero; uso il termine “professionisti” e non “sviluppatori” perché non tutti si occupano strettamente della parte tecnica dello sviluppo, ma il loro contributo resta comunque una parte fondamentale del processo che porta poi al videogioco come lo conosciamo. Si è anche cercato di dare una prospettiva di respiro ampio: quindi, fra gli intervistati c’è sia gente che ha lavorato o lavora nell’ambiente dei tripla A che piccoli studi indipendenti, e naturalmente vie di mezzo.

L’IDEA DIETRO A QUESTA INCHIESTA È NATA DA UNA RIFLESSIONE SU COME A PARLARE DEI VIDEOGIOCHI SIA TROPPO POCO SPESSO CHI CI LAVORA

Gli intervistati che hanno fornito la loro disponibilità per questa intervista sono, nell’ordine in cui sono stati sentiti: Gaetano Peligra, fondatore di Studio Clangore; Daniele Corrado, Localization Producer presso Riot Games, ora Producer per DestinyBIT; Daniele Duri, Principal Gameplay Animator a CD Projekt Red; Zeno e Adriano, duo trentino che, sotto il nome di StudiObliquo, si occupa di creare giochi educativi; Alain Dellepiane, traduttore freelance e fondatore dello studio di localizzazione Gloc.Team; Tommaso De Benetti, ex Community Manager (“se Dio lo vuole non tornerò più a farlo”, precisa) presso Housemarque e attualmente Communications Director a Cornfox & Brothers; Maurizio e Francesco De Angelis di Footprints Games, creatori di Detective Gallo e Pizza Spy; Pietro Righi Riva, cofondatore e Studio Director di Santa Ragione; Fillippo Beck Peccoz, compositore che si è distinto in particolare per il suo lavoro sulle colonne sonore di Shadow Tactics, Desperados III e Shadow Gambit; Elisa Farinetti, Business Developer e cofondatrice di Broken Arms Games; e ultima ma non per importanza, Elisa Di Lorenzo, cofondatrice e amministratrice di Untold Games. Non sono stati coinvolti nelle interviste, ma si vogliono comunque ringraziare Giorgio Catania di Excaliber e il collega di redazione Claudio Magistrelli per la loro collaborazione.

Le interviste si sono svolte in due parti, secondo una struttura simile per tutti: una prima dedicata alla carriera dell’intervistato nell’ambito dei videogiochi e al suo rapporto con il settore; e la seconda incentrata sulle opinioni personali a proposito del tema dei licenziamenti, del crunch, e delle IA generative. Una nota prima di iniziare: per forza di cose – la durata media delle interviste è stata di circa un’ora – di quanto detto dagli intervistati è stata fatta una selezione, ma questo non vuole in nessun modo sminuire quanto volentieri sono stato ad ascoltarli. Ciascuno di loro meriterebbe un articolo a sé.

STORIE DI UN AMORE

In un periodo in cui chi lavora ai videogiochi sembra essere sempre più sotto attacco, non solo dai meccanismi del sistema ma anche da un fetta minoritaria ma molto rumorosa di giocatori, penso che la prima cosa che vada sottolineata è quanto bastino pochi minuti con uno qualunque di loro per capire quanto amino i videogiochi. È una cosa evidente dalla passione con cui parlano della loro carriera, dei momenti alti e di quelli bassi, e dei temi di cui gli chiedo. È evidente anche dalla strada che molti di loro hanno fatto prima di arrivare dove sono arrivati. Daniele Corrado, per esempio, mi racconta di come abbia studiato computer science (“non ho avuto un mio computer fino al secondo anno di università”, ricorda), del periodo passato a fare Customer Service telefonico a Glasgow, degli undici (!) colloqui che ha dovuto sostenere prima di riuscire infine a entrare in Riot Games. Alain, anche lui finiti gli studi parte per l’Inghilterra, Londra per la precisione, dove fa Localization QA, e mi parla di turni da dodici ore – e di episodi al limite del fantozziano, come quella volta che un capo ha detto a lui e ai suoi colleghi che forse sarebbe riuscito a lasciare loro la domenica libera; o ancora, “io l’ho fatto una volta, di comprare una camicia nuova perché non avevo tempo di lavarla”; poi la storia prosegue con il suo ritorno in Italia con la traduzione freelance come secondo lavoro notturno, fino a quando Square lo chiama per andare a lavorare a Tokyo.

Alain Dellepiane, fondatore dello studio di localizzazione gloc.team.

Binari Sonori, ora Keywords, gli propone di mettere su un team suo, quel gloc.team che è ancora oggi la sua casa (lavorativa, quella vera sta a Tokyo). Per fortuna non tutti si trovano di fronte a situazioni così disperate, ma le storie di percorsi non esattamente dritti sono comuni. È interessante la traiettoria di Daniele Duri, per esempio, che studia elettrotecnica al Malignani di Udine (“era tipo un carcere minorile, c’erano solo ragazzi”, ricorda divertito), poi si appassiona al modeling e all’animazione 3D basandosi sulle pochissime risorse disponibili sull’internet pre-2000. A quei tempi, me lo dice ridendo, “la cosa dei videogiochi non era nemmeno nell’anticamera”, anche se già giocava con lo Spectrum 64K. Da Udine va a Roma a lavorare presso uno studio di applicazioni web, poi passa a uno studio che negli anni successivi finirà inglobato dentro Rainbow CGI, poi lavora a serie TV a Torino, poi a Monaco, ed è da lì che nel 2007 fa il salto ai videogiochi passando a Lionhead.

Daniele Duri, Principal Gameplay Animator a CD Projekt Red.

Il passaggio di Daniele per l’animazione per piccolo schermo accomuna la sua traiettoria a quella di Maurizio De Angelis; anche il suo è comunque un bel percorso a zig zag, che inizia con una laurea in Lettere Classiche, per poi andare a lavorare in Rainbow Spa come character designer, e nel 2015 decidere con il fratello Francesco, ingegnere elettronico per cui “il passaggio dall’ambito industriale a quello ludico non è certo stato automatico”, ma che lo ha fatto ben volentieri per seguire la sua passione, di creare quello che diventerà poi Detective Gallo, il loro primo gioco. Altro ingresso “per gradi” nel mondo dei videogiochi è quello di Tommaso De Benetti (nome che alcuni conosceranno come la voce del RingCast), che da Padova va a farsi un anno di Erasmus in Finlandia, dove decide di tornare per fare un master in media e comunicazione. Da lì andrà a collaborare con varie startup non proprio fortunatissime; una di queste, però, gli fornirà l’aggancio giusto per venire assunto da Recoil Games. Purtroppo anche per gli sviluppatori di Rochard le cose iniziano ad andare male, ma da lì Tommaso riesce a saltare a Housemarque. Gaetano è un altro che il percorso per entrare nel settore se lo inventa: studia Ingegneria Meccanica, insieme a due amici tira su un sito (ora defunto) per recensire videogiochi – era la fine degli anni ‘90, dunque in epoca di pieno boom dell’Internet – che riesce ad attirare l’attenzione, dopo due anni decide di provare a passare “al di là della barricata” e ci riuscirà finendo in Editrice Giochi. Da lì, avrà il via una carriera ventennale come Producer specializzato negli adattamenti di giochi da tavolo. Elisa Farinetti, programmatrice di formazione, è un’altra che non progetta subito di entrare nel mondo dei videogiochi. Fra 2012 e 2013 però lei e il suo compagno, insieme fondatori di Broken Arms Games, decidono di fare il salto, letteralmente: vanno in Australia a fare esperienza sotto un’incubatrice di startup, per poi tornare in Italia e dedicarsi principalmente al business B2B. Nel 2017 si conquisteranno un accordo di partnership con Milestone, ma la vera svolta arriva nel 2021, quando grazie ad Hundred Days – A Winemaking Simulator lo studio finalmente troverà la sua vera identità.

Zeno e Adriano, fondatori di StudioBliquo.

Elisa di Lorenzo, Cofondatrice e CEO di Untold Games

Zeno e Adriano, che si conoscono all’Università di Trento dove lavorano a un gruppo di ricerca in comune, sono fra quelli con il percorso più dritto: dottorato in informatica (“barra interazione uomo-macchina, barra user experience, barra quello che a uno pare più conveniente chiamarlo”, spiega) il primo, artista il secondo, passano subito – non senza incontrare mai difficoltà, beninteso – a creare giochi che puntano a facilitare lo sviluppo cognitivo. Simili anche le traiettorie di Pietro Righi Riva, Elisa Di Lorenzo e Filippo Beck Peccoz, che dopo l’università (o in alcuni casi già durante) passano direttamente ai videogiochi. Pietro si laurea in design della comunicazione, fa un dottorato in design dell’interazione e durante l’ultimo anno in università fonda, assieme a Nicolò Tedeschi, Santa Ragione, lo studio che è ancora oggi il suo lavoro principale. Elisa Di Lorenzo, che già da piccola era quella che si occupava di aggiustare il Commodore 64 del padre, si diploma come perito informatico, studia informatica a Genova seguendo il percorso Grafica e Immagini, cioè “la cosa più vicina a fare videogiochi”. Con altre quattro persone conosciute durante gli studi, nel 2008 fonda la società che poi diventerà Untold Games, e che inizia il suo percorso sui giochi flash (“siamo sempre stati un po’ pazzi, noi facevamo cloni di Diablo, un jrpg di 36 ore di durata”) per poi specializzarsi nel co-development. Oggi sono al lavoro su City 20, un ambizioso survival sandbox che si ispira a Kenshi e a Rimworld. Filippo Beck Peccoz va a studiare composizione al Berklee College of Music di Boston, ma nonostante l’ambiente più cosmopolita in cui si trova incontrerà lo stesso problema di molti suoi colleghi italiani, e cioè l’assenza di corsi dedicati ai videogiochi; dovrà quindi ripiegare sulla composizione per film, e non è senza un moto di orgoglio che mi racconta di come un club da lui fondato con a tema proprio la musica videoludica, e l’interesse che era riuscito a generare, furono uno dei motivi che spinsero l’università ad aprire i primi corsi dedicati ai videogiochi.

UN NUOVO MONDO

La seconda domanda che pongo agli intervistati si divide. A chi sviluppa all’estero, chiedo com’è stato spostarsi dall’Italia, e che genere di ambiente hanno trovato (“in Inghilterra d’inverno è veramente deprimente, alle 3 di pomeriggio fa buio, fa freddo”, mi dice Alain). Peculiare è comunque il caso di Tommaso, e non perché lui mi dica o faccia cose strane ma perché il suo tempo in Housemarque fa parte di un documentario, The Name of the Game, dedicato allo sviluppo di Nex Machina e disponibile su Netflix Italia.

Tommaso De Benetti, Communications Director a Cornfox & Brothers.

Dopo aver parlato con lui non posso fare a meno di andare a guardarmelo; personalmente ho trovato molto interessante lo sguardo che fornisce “dietro le quinte”, e sugli alti e bassi della creazione di un gioco che comunque è stato molto apprezzato quando finalmente è arrivato nei negozi, ma devo ammettere che la cosa che mi ha più colpito è stata la quantità industriale di alcolici che i finlandesi finivano per trangugiare in ogni occasione (a un certo punto, per scegliere il nome del gioco fra centinaia di candidati, si chiudono in una suite d’albergo, e il loro piano è bere liquori finché non escono da lì con un nome. Tommaso, da buon veneto, tiene botta). A parte questo, Tommaso mi racconta, tutti i salti da uno studio all’altro che abbiamo raccontato sopra si spiegano con il fatto che “qui si conoscono tutti. Infatti una roba che non puoi fare è bruciare i ponti”. “È una situazione che va bene quando hai i contatti personali. Quando invece c’hai degli scazzi… io per esempio con un’azienda ho avuto degli scazzi, sostanzialmente ho mandato [a quel paese] il capo in un meeting, però fortunatamente lui non aveva una grandissima influenza”, dice ridendo.

Una volta arrivato in Finlandia Tommaso ci rimane, ma per gli altri che sono andati all’estero spostarsi è stata un’esperienza abbastanza comune. Alain, dopo la brutta esperienza con il clima inglese e con i ritmi di lavoro, torna in Italia dove fa lo spedizioniere di giorno e il traduttore di notte (“nei tre mesi in cui ho fatto la traduzione di Yakuza ho guadagnato di più che con il mio lavoro normale”), poi, come avevamo accennato, Square lo chiama a lavorare nel suo ufficio di Shinjuku, dove resta per sei mesi e lavora a The Last Remnant. L’impatto con la nuova realtà, con il passaggio da quelli che chiama “microteam” di traduzione bene o male autonomi a livello decisionale alla realtà di una grande corporazione nipponica, non è facile: “ci sono sei livelli di management, e l’obiettivo del manager sopra di te non è tanto completare il lavoro quanto gestire i rapporti con il manager di sopra, e quello di fianco, eccetera eccetera. Io avevo pochissima esperienza di queste cose qui”, anche se non nega che l’opportunità offerta da Square gli abbia cambiato la vita. Dopotutto, in Giappone si trova bene e decide di restarci (“ci sono i terremoti, non ci sono le cacche dei cani per strada”). Alain è anche attivo all’interno della comunità di traduttori, organizza da anni la LocJam, evento che permette a traduttori in erba di mettersi alla prova, è stato per 4 anni nella IGDA (International Game Developers Association) dove si inserisce nel gruppo della traduzione con “il ruolo innovativo di quello che fa qualcosa”. Nel 2018 le strade divergeranno, Alain lascerà la IGDA ma non il suo impegno nell’organizzazione delle LocJam.

Daniele Corrado, Producer per DestinyBIT.

Della carriera di Alain ci sarebbe tanto da raccontare ma è giusto lasciare la parola anche ai suoi colleghi, per esempio a Daniele Corrado che ricopre un ruolo simile, anche se lui invece dentro la grande corporazione (e cioè Riot Games) ci passa gran parte della sua carriera. (Nota: la cultura interna di Riot Games ha avuto problemi di sessismo e discriminazione al suo interno peraltro riconosciuti dalla stessa compagnia, che ha promesso in una dichiarazione pubblica di fare tutto il possibile per assicurarsi che non si ripetano. Dato che la questione sarebbe stata tutt’altro che semplice da sbrogliare, Daniele ha preferito astenersi dal commentare). Anche della sua storia ci sarebbe tanto da dire, del rapporto non sempre salutare fra team di sviluppo e Reddit, della difficoltà di convincere i piani alti di Riot dell’inopportunità di avere una linea di skin “Mafia” (nel 2020, dopo anni dalla loro introduzione, verranno rinominate in “Città del Crimine”), di aver assistito a Riccardo Peroni, doppiatore – fra gli altri – di Joker che per League of Legends presta la sua voce a Kled, che tira una sequela di imprecazioni in genovese. Ma la cosa che mi colpisce di più è quando mi parla del campus Riot di Santa Monica.

“A DUBLINO MI TROVAVO BENE. POI VAI A SANTA MONICA, E TI RENDI CONTO CHE È STATO TUTTO PAGATO CON I SOLDI DELLE MICROTRANSAZIONI”

“Quand’ero a Dublino mi trovavo molto bene, e mi rendevo conto di essere in una sezione molto privilegiata come lavoro” mi spiega, raccontandomi dei vari benefit: colazioni e due pranzi a settimana offerti e gadget assortiti ricevuti in regalo a ogni evento. “Mi dico: sono arrivato al picco qua, non c’è niente di meglio. Poi vai negli Stati Uniti”, al campus di Santa Monica, “e ti rendi conto che ogni singola cosa che tu vedi è stata pagata dai soldi delle skin”, cioè le microtransazioni estetiche di League of Legends e degli altri giochi di Riot Games. “La food court era questo patio gigante di legno, con tavoloni da venti persone, begli ombrelloni di tela bianca, e questo corridoione grande come una stradina a due corsie italiana con in mezzo il salad bar, a sinistra i pizzaioli che facevano la pizza lì per lì, a destra hamburger eccetera eccetera, poi andavi più avanti e c’era la test kitchen, dove facevano cose strane, poi c’erano tutti gli smoothies, in fondo c’era la zona vegana, e c’erano 10-15 kitchenette con snack gratis, frutta gratis.”

Ovviamente il ben di dio non si ferma qua, Daniele mi parla dell’Internet Cafè interno, della cultura del lavoro molto rilassata (puoi anche metterti a giocare sui pc del lavoro, l’importante è che tu abbia fatto la tua parte). Collega anche il tutto al rapporto fra Riot e il work from home: è chiaro che quando un’azienda ha investito così tanto nel rendere i suoi uffici un tale posto da sogno, la diffusione del lavoro da casa venga vista come qualcosa che vanificherebbe i soldi investiti nella proiezione di uno status. Chiedere a Daniele come è stato lasciare Riot e tornare in Italia, e come mai abbia preso questa decisione, è inevitabile. “Tornare in Italia è stato un calcio in faccia incredibile”, dice subito, spiegandomi che se è tornato qui è stato perché voleva comprare casa, “volevo vivere in un posto non solo in funzione del lavoro che facevo, ma perché mi piaceva il posto”. Poi mi parla di come dell’Italia gli piaccia il concetto di “vivere lentamente”: “sembra una cosa negativa, in realtà lo vedi in tante piccole cose, e mi fa stare bene”; fa vari esempi di questo concetto, ma quello su cui si sofferma di più riguarda i ristoranti che all’estero ti dicono “avete un’ora e mezza per cenare”.

Fillippo Beck Peccoz, compositore di Shadow Tactics, Desperados III e Shadow Gambit.

Con Filippo, residente a Monaco, la domanda finisce per cadere su come sia visto il lavorare nei videogiochi in Germania. Le reazioni si dividono in due: la prima è che soprattutto chi ha un’età più avanzata quando viene a sapere che compone musica per i videogiochi gli chiede “ah ma quindi fai musica elettronica?” o “quei suonini, come fossimo negli anni ‘70”, salvo poi scoprire sorpresi che Filippo lavora con orchestre e solisti. Questa è una reazione che gli capita spesso, dice; l’altra è di senso completamente opposto. “Ah sì, l’industria dei videogiochi adesso è il futuro, ci sono soldi ovunque, è florida… che è anche un’immagine come sappiamo noi molto complicata e anche un po’ precaria” (il giorno prima della nostra intervista, Microsoft ha chiuso Tango Gameworks, Arkane Austin, Alpha Dog e Roundhouse Studios). Memore di quando ho fatto una domanda simile ad Alain, anche lui lavoratore freelance, gli chiedo se preferirebbe essere sotto contratto (Alain aveva risposto “ma certo” senza la minima esitazione). Filippo mi spiega che essere sotto contratto significherebbe che non potrebbe fare solo il compositore: dovrebbe assumersi anche altri ruoli, qualcosa di più vicino all’Audio Director, che quindi non si occupa solo della musica ma anche di doppiaggio, suoni ambientali, eccetera. Queste cose, comunque, nel corso della sua carriera si è trovato a farle, ma “negli anni mi sono reso conto, anche con i giochi Mimimi, che quando finivano le call organizzative, avevo implementato la musica a sistema, avevamo tolto tutti i bachi eccetera, quando finalmente potevo mettermi a scrivere la musica era come un regalo”. E quindi sì: essere freelance gli permette di potersi dedicare con più facilità all’aspetto creativo, e dunque “ne accetto anche i lati brutti”.

Anche Daniele Duri passa qualche tempo in Germania; lui invece va a Francoforte, dove “ti senti sempre un po’ povero. Perché anche se ti pagano bene, la città è costosa e in giro c’è gente che ha molti più soldi di te [ride] quindi tu pensi, vabbé me la cavo bene, e poi c’è la gente in Ferrari”. Lì lavora per Crytek, presso cui rimane sette anni, collaborando allo sviluppo di Crysis 2, di Ryse: Son of Rome e alle prime fasi della produzione di Hunt: Showdown.

l’insuccesso di pubblico e di critica di Ryse fu un duro colpo per il morale interno di Crytek

Proprio Ryse: Son of Rome sarà uno dei motivi che, indirettamente, lo spingeranno a spostarsi: la pessima ricezione ricevuta dal gioco aveva inflitto un duro colpo al morale interno, e combinata all’impressione di una perdita d’identità dello studio lo convince ad andare a Varsavia, dove entrerà in CD Projekt RED. Di Varsavia mi parla come una vera e propria hub dello sviluppo di videogiochi: “oltre agli studi grossi c’è un livello di indie incredibile”, mi spiega, raccontandomi di colleghi che rimbalzano da uno studio all’altro, di eventi e incontri regolari rivolti a chi lavora nei videogiochi, di una realtà parecchio stimolante. Riflettendo sulla situazione italiana, di cui ammette di non essere un esperto – se n’è andato abbastanza presto – non può fare a meno di pensare su come già nel 2007, quando lui andò nel Regno Unito, il tema delle sovvenzioni statali per l’industria dei videogiochi era sufficientemente parte del dibattito pubblico da essere trattato sui giornali. “I miei colleghi mi chiedono, ma perché lavori in Polonia, ma perché non sei in Italia, in Italia è bello… sì è bello per andare in vacanza! Mi chiedono perché non c’è l’industria dei videogiochi, e io non glielo so spiegare […] non ci mancherebbe niente, forse manca l’imprenditorialità, i fondi per fare qualcosa di diverso.” Gli parlo della fuga di cervelli, e lui mi risponde ridendo “nel nostro caso non è cervelli, è più fegatelli”.

Pietro Righi Riva, cofondatore e Studio Director di Santa Ragione.

Il discorso di Daniele Duri su Varsavia come grande hub dello sviluppo dei videogiochi mi torna in mente durante la chiacchierata con Pietro Righi Riva. Gli dico che a me sembra che in Italia non ci sia nulla di paragonabile, e gli chiedo cosa ne pensa. “Siamo molto distribuiti,” risponde. “Forse è anche un altro problema, manca un pochino di rete, di luoghi di condivisione, di aggregazione, di confronto… [le realtà italiane] anche se importanti, sono molto slegate fra loro.” Comunque momenti di ritrovo importanti ce ne sono, sottolinea: “IIDEA tutti gli anni organizza in Toscana il First Playable, un evento in cui loro portano editori e publisher di tutto il mondo a Firenze per incontrare gli studi italiani. Quello è un bel momento che funziona anche molto bene. Ce ne vorrebbero di più, e poi ci vorrebbero anche come dici tu sul territorio, degli spazi di lavoro, dei laboratori, dei coworking in cui confrontarsi quotidianamente con chi fa il tuo lavoro. Quello penso che ci darebbe veramente un aiuto.” Un altro tema che è molto caro a Pietro è quello della copertura mediatica, o meglio, della sua quasi totale assenza al di fuori dei circoli specializzati. Quando mi sento con lui si è da poco conclusa la GDC 2024, dove Mediterranea Inferno, sviluppato da Lorenzo Radaelli e pubblicato da Santa Ragione, è stato nominato vincitore nella categoria Excellence in Narrative dell’Independent Games Festival, che ospita una delle premiazioni più ambite per chi sviluppa giochi indie. È la prima volta per un gioco italiano ma, come sottolinea non senza una – comprensibile, secondo chi scrive – certa amarezza Pietro, “quattro o cinque giornali generalisti italiani hanno riportato la notizia, ma la maggior parte no. Che è… è significativo, cioè, se un film italiano minore vince il Sundance [uno dei più grandi festival del cinema indie], qualunque testata riporta la notizia. Invece purtroppo il videogioco in Italia in particolare non è considerato un prodotto culturale con la stessa dignità di altri”.

“Se un film italiano minore vince il Sundance qualunque testata riporta la notizia”

È evidente come il suo discorso vada al di là dei giochi in cui ha un coinvolgimento personale, e che la sua preoccupazione sia di stampo culturale, sia in Italia che al di fuori. “Noi non abbiamo ancora avuto il tempo per stabilire una vera cultura del videogioco come c’è nel cinema, non ci sono i corsi che studiano la semiotica del videogioco, non c’è una tradizione di critici del videogioco, e questa cosa o gli diamo il tempo per esistere o rischi che venga completamente assorbita e il videogioco resti sempre soltanto un prodotto di intrattenimento, di svago”. Faccio il nome di Francesco Toniolo e Matteo Bittanti, due accademici che si occupano anche di divulgazione. “Figurati, io lavoro con Bittanti da quindici anni, ma il problema è che lavoro con Bittanti da quindici anni! Nel senso che a occuparsi dei videogiochi in questo modo siamo veramente in pochi.”

FARSI CONOSCERE

La questione culturale, per Pietro, si lega strettamente alla discoverability, cioè a quanto è probabile che il tuo gioco venga visto. Affidarsi troppo agli algoritmi degli store digitali è sicuramente comodo dal punto di vista di un utente, ma il rischio è che delegando lo sforzo della scoperta, disabituandoci alla ricerca, sottovalutando il potenziale espressivo dei videogiochi, il mercato tenda sempre di più verso l’appiattimento, e questo “poi porta a quelle cose che abbiamo visto, tipo un Nintendo Direct in cui ci sono dieci giochi di fattoria o l’Iniziativa Tripla-I in cui c’erano dieci cloni di Hades e Vampire Survivors.” Di discoverability parlo anche con Maurizio. Torniamo indietro ai tempi di Steam Greenlight, quando “avevi la possibilità di entrare in Steam dopo che si era creata una fanbase virtuale che comunque aveva di fatto provato e approvato il tuo gioco”.

Maurizio e Francesco De Angelis, in arte Footprints Games.

Certo, “è vero che anche lì si scoprivano dei magheggi”, ma lo preferisce al metodo odierno, dove “paghi cento euro e sei dentro, ma sei una goccia nell’oceano. Steam non ti dà assolutamente nessun tipo di strumento, se non ogni tanto i saldi, che ti danno una minima visibilità legandoti ai generi”. L’ingresso automatizzato, senza nessun controllo, è un’arma a doppio taglio: da un lato bene perché permette accesso immediato a chiunque senza particolare burocrazia, dall’altro “il problema è quello di avere tantissimi giochi che vanno a togliere la visibilità, e che magari non sono nemmeno giochi, sono buggati, sono incompleti, su cui Steam non fa il minimo controllo.” Maurizio comunque spezza una lancia a favore della Steam Next Fest, che ha aiutato molto il loro Pizza Spy a catturare l’attenzione di un buon numero di backer per la campagna Kickstarter, ma non ha dubbi nel preferire l’approccio di GOG. “Loro fanno una selezione abbastanza meticolosa, però poi ti danno molti strumenti per darti visibilità anche accanto a giochi tripla A. C’è un controllo più umano e più diretto, più preciso.” E gli aiuti statali italiani? A questo risponde suo fratello Francesco: ovviamente bene che ci siano, ma “i criteri per poterne usufruire sono molto spesso troppo stringenti, col risultato che l’efficacia dell’azione del governo resta valida solamente a pochissime realtà, in un panorama molto ampio di sviluppatori di videogiochi (indipendenti e non).”

Elisa Farinetti, Business Developer e cofondatrice di Broken Arms Games.

Su questo argomento, Elisa Farinetti ha una visione meno critica. “Steam è un po’ come la grande distribuzione organizzata,” mi spiega, “ha le sue regole e se vuoi vendere al loro interno devi seguirle. È fair? No, però una volta che lo sai devi stare al gioco.” Chiaramente, anche lei è consapevole che non per tutti il gioco funziona allo stesso modo. “Va anche fatta la distinzione, noi adesso vogliamo fare gestionali che comunque sono un genere ben definito e che attira una fetta chiara di pubblico, per chi vuole fare cose più artistiche, quindi per forza di cose definite meno chiaramente, è più complicato trovare un buono spazio”. Mi parla anche dell’importanza del marketing, di come non basti farlo prima della release ma sia importante continuare anche dopo, non necessariamente con grandi campagne pubblicitarie: “non ci sono solo le migliaia di euro che devi spendere per la copertina di Edge o per il bannerone su PC Gamer, uno può fare marketing anche a costo zero.” Il riferimento ai social è evidente, anche se avvisa che “non è facile capire in quale quantità le impressioni che fai lì poi si traducono in numeri di wishlist o di acquisti”.

il successo economico di Hundred Days è difficilmente percepibile dal numero di recensioni della sua pagina Steam

Mentre stiamo discutendo di questo, mi torna in mente di come ha definito Hundred Days una svolta non solo creativa ma anche dal punto di vista prettamente numerico. Ripenso alle infinite speculazioni su quando si può dire che un certo gioco ha venduto bene o male, e le chiedo di parlarmi proprio di questo. “Da quando è uscito, Hundred Days ha venduto quasi centomila copie. Ci è costato circa 425.000€, e ce ne ha fatti guadagnare intorno al milione e mezzo.” Un successo che per Broken Arms Games ha chiaramente fatto la differenza, ma che è difficilmente percepibile dalla sola pagina Steam e dalle sue 860 recensioni. Successo che, tra l’altro, si è costruito col tempo: nei primi dieci giorni le copie vendute erano 9.000. Elisa mi fa anche l’esempio di un altro loro gioco, Atomine: “quello nei primi giorni aveva venduto 10 o 12 copie”, un numero che è facile immaginare essere sconfortante. “Però ora è arrivato a 30.000 copie.”

Gaetano, che per 8 anni ha fatto parte del gruppo di lavoro di Aesvi (ora IIDEA), mi permette di dare uno sguardo alle logiche dietro all’implementazione di politiche di supporto economico come il tax credit o il First Playable Fund. “Il tax credit nasce semplicemente per concorrenza di mercato. Il mercato dei videogiochi è sempre stato globale a livello di sviluppo sia per i piccoli team che per i grandi. Quindi il mio concorrente non era lo studio di Torino, ma quello di Brighton o quello di Parigi o quello di Montreal. In tutti questi paesi, dove la politica ha avuto occhio, esisteva il tax credit quindi chi voleva investire nel gaming aveva più ritorno ad andare in questi paesi piuttosto che in Italia. Quindi tutti i nostri team restavano fuori dagli investimenti. Si è cercato di riequilibrare uno svantaggio rispetto al resto del mondo”. Del First Playable Fund (che a differenza del tax credit offriva finanziamenti diretti), mi dice che “è stato veramente un miracolo” riuscire a convincere il MISE, numeri alla mano, di come i videogiochi fossero un settore più profittevole del ben più incensato cinema.

“Il mio concorrente non è lo studio di Torino, ma quello di Brighton o di Parigi o di Montreal”

“Considera che comunque rispetto al cinema i videogiochi prendono ancora briciole”, puntualizza. Gaetano mi racconta anche del processo dietro alla nascita del First Playable, l’evento business fiorentino di cui mi ha parlato positivamente Pietro Righi Riva, e di cui Elisa Farinetti dice che “se mi avessi detto dieci anni fa che ci sarebbe stata una cosa del genere non ci avrei mai creduto”. Il First Playable “nasce per una necessità diversa. Devi sapere che, fino circa al 2012, 2013, se volevi la possibilità che un publisher prendesse il tuo gioco e lo pubblicasse, avevi solo una scelta: prendere un aereo e recarti alla GDC, preferibilmente quella di San Francisco.” Una spesa di tempo e di denaro che non tutti possono permettersi, soprattutto fra gli studi più piccoli; e, comunque, una volta lì non è che il contratto fosse garantito, bisognava giocarsi bene la mano a disposizione. Dal 2013 IIDEA, l’associazione di sviluppatori italiani, si attiva per organizzare missioni italiane, permettendo almeno in parte di risparmiare. Ma il problema resta. E dunque il motto diventa “se Maometto non va alla montagna, la montagna va a Maometto”: bisogna portare questi grandi publisher in Italia. Nasce così nel 2019 il First Playable. Un risultato importante, che facilita la connessione fra studi italiani e grandi nomi esteri, anche se “tenendosi a luglio, tutti i budget dei vari publisher sono stati già allocati, quindi o ti accontenti delle briciole o imposti il lavoro per l’anno successivo.”

Nella seconda parte di questa inchiesta si parlerà di licenziamenti, di crunch e di intelligenza artificiale.

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