Nota: questa inchiesta in due parti – trovate qui la prima – raccoglie una serie di interviste che si sono tenute fra il gennaio e il luglio 2024. È poi stata pubblicata, in forma leggermente ridotta per esigenze di pubblicazione, su TGM 408, 409 e 410. Anche se alcuni esempi portati nel testo possono essere meno attuali al giorno d’oggi, nel complesso la riteniamo un valido strumento per aiutare a capire meglio alcuni aspetti dell’industria videoludica.
In questo capitolo del dossier, si passerà a parlare di alcuni temi pressanti del dibattito intorno all’industria dei videogiochi: il crunch, ovvero la tendenza a lunghi periodi di straordinario; i licenziamenti, che come ricordavamo nella prima parte, dal 2023 si sono abbattuti come un vero flagello sul settore; e infine l’impatto delle IA generative come ChatGPT e Midjourney.
Ricordo che gli intervistati che hanno fornito la loro disponibilità per questa intervista sono, nell’ordine in cui sono stati sentiti: Gaetano Peligra, fondatore di Studio Clangore; Daniele Corrado, Localization Producer presso Riot Games, ora Producer per DESTINYbit; Daniele Duri, Principal Gameplay Animator a CD Projekt Red; Zeno e Adriano, duo trentino che, sotto il nome di StudiObliquo, si occupa di creare giochi educativi; Alain Dellepiane, traduttore freelance e fondatore dello studio di localizzazione Gloc.Team; Tommaso De Benetti, ex Community Manager presso Housemarque e attualmente Communications Director a Cornfox & Brothers; Maurizio e Francesco De Angelis di Footprints Games, creatori di Detective Gallo e Pizza Spy; Pietro Righi Riva, cofondatore e Studio Director di Santa Ragione; Fillippo Beck Peccoz, compositore che si è distinto in particolare per il suo lavoro sulle colonne sonore di Shadow Tactics, Desperados III e Shadow Gambit; Elisa Farinetti, Business Developer e cofondatrice di Broken Arms Games; e ultima ma non per importanza, Elisa Di Lorenzo, cofondatrice e amministratrice di Untold Games.
FARE VIDEOGIOCHI IN ITALIA
La scorsa puntata dell’inchiesta si era chiusa con Gaetano Peligra che mi parlava di come si arrivò alla creazione del First Playable, un evento business italiano organizzato da IIDEA, l’associazione italiana degli sviluppatori di videogiochi, che permette a chi lavora nel game dev di avere contatti con le grandi realtà di publishing senza bisogno di recarsi all’estero; l’approccio del gruppo di lavoro che si occupò per primo di organizzarlo è proprio stato descritto da Gaetano come “se Maometto non va alla montagna, allora la montagna viene da Maometto”. Del First Playable chiedo anche a Elisa Di Lorenzo. Premette subito che si trova nel board di IIDEA, di cui elogia “il lavoro che non vediamo”, perché come sa bene lei stessa quando sei impegnato a sviluppare per conto tuo è difficile dedicare tempo all’associazionismo. Mi conferma anche lei quanto mi aveva detto Gaetano a proposito dell’enorme lavoro svolto per arrivare a misure come il tax credit, e anche lei ha un’alta opinione del First Playable, per il quale ci tiene a sottolineare l’importanza del contributo istituzionale, in particolare di Toscana Film Commission e dell’ICE (Agenzia ministeriale per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane). Mi parla nello specifico delle sessioni di coaching, che permettono a sviluppatori in erba di presentare i loro pitch e di ricevere indicazioni e consigli. “Tanti team erano veramente messi male. In alcuni casi addirittura non si capiva cosa faceva il gioco [ride] però ci sta, noi ci siamo passati prima, l’idea era dargli una mano”, mi spiega.
Anche perché “meglio prendere una facciata al First Playable che alla GDC”. Il programma di coaching, per Elisa Di Lorenzo, è un modo importante per cercare di rimediare a quella che è una mancanza comune fra chi inizia a sviluppare videogiochi, e cioè la tendenza a sottovalutare l’importanza del sapersi vendere. “Abbiamo un po’ di ignoranza di fondo sul lato business, imprenditoriale. E io mi ci metto per prima, nel senso che noi abbiamo iniziato così, per passione, facendo dei grossissimi errori. Noi siamo riusciti a stare a galla, e ci è andata bene. Altri non ci riescono.” Un discorso che mi ricorda quello avuto con la sua omonima pochi giorni prima, e infatti “voglio tanto bene a Elisa [Farinetti]. Best ever, è fantastica”. Elisa Di Lorenzo mi propone anche una riflessione sullo stato delle cose in Italia, che mi definisce come una nazione dove si fa fatica con l’innovazione, “è un Paese in realtà fatto di piccole aziende. Aziende che principalmente fanno cose fisiche, tangibili, e quindi c’è un distacco fra la cosa tangibile, e la parte creativa, di software, tutto l’intangibile, che è difficilmente inquadrabile da strutture che sono legate ad altri paradigmi. Però questa cosa non è limitata solo a noi, io la sento anche da altri developer esteri”.
“L’Italia è un paese pieno di aziende che fanno cose fisiche, tangibili, e dove c’è un distacco con tutto quello che è intangibile, creativo”
Quello di Zeno e Adriano è un contesto diverso da quello degli altri sviluppatori con cui ho parlato. Loro si occupano di giochi educativi, quindi in teoria più semplici anche da “vendere” a un pubblico istituzionale, e lo fanno in una realtà locale, quella della Provincia autonoma di Trento. Non devono dunque temere la concorrenza dello studio di Brighton o di Parigi o di Montreal, ma si scopre ben presto che le loro preoccupazioni non sono poi così diverse da quelle degli altri colleghi. Parlando della comunicazione con le famiglie e con i genitori in particolare, Zeno mi dice che “c’è sempre una parete fra te e loro. Arrivano e pensano ok, è videogioco, quindi è male a priori”. Ovviamente non è così in tutti i casi, ma è un’esperienza frequente. “La mia percezione è comunque che la gente ancora qua in Italia storce il naso all’idea.” La cosa non si limita solo alle famiglie, ma anche alla ricerca di finanziamenti: “se gli fai tutto lo spiegone, che scientificamente ci sono le università di mezzo, allora un po’ riprendi il loro interesse […] però è l’educativo che gli accende l’attenzione, il videogioco è quello che gliela spegne.” Adriano conferma quelle che sono le impressioni di Zeno: lui lo definisce come un “doversi togliere dalla zona del perdere tempo”.
Una idea che, dice Adriano, “secondo me si è un pochino accentuata negli ultimi tempi, con la demonizzazione generale degli strumenti digitali e degli schermi, che si è portata dietro questa cosa qua.” Non è comunque tutto male, ci tiene a sottolineare: le famiglie più giovani iniziano ad avere un approccio più aperto ai videogiochi. Zeno torna sul discorso della percezione dei videogiochi parlandomi dell’inquadramento a livello statale: “Io a livello di libero professionista ho inquadramento ATECO che è tipo consulente per sviluppo software [con tutta probabilità si tratta dell’inquadramento 62.01, ‘Produzione di software non connesso all’edizione’] perché non c’è niente di più specifico, noi siamo in un mondo in cui ci sono codici ATECO che vanno molto sullo specifico, chessò, fai produzione di dolci [effettivamente esiste un codice ATECO, 10.72, per la ‘Produzione di fette biscottate e biscotti’], però io sono consulente informatico. Cosa cacchio vuol dire nel 2024 essere consulente informatico?”
STRESS DA SUPERLAVORO
Il primo tema “serio” – virgolette d’obbligo, perché finora non è che si sia parlato di cose poco importanti – di cui finiamo a parlare è il crunch. Questo termine viene usato in particolare nel settore videoludico per indicare periodi di lavoro particolarmente intensi, caratterizzati da ore e ore di straordinario (quindi non si tratta di tornare a casa mezz’ora o un’ora dopo ogni tanto, ma di lavorare anche durante il fine settimana e storie simili) e da un impatto non indifferente sulla salute psicologica della persona. È un tema di cui nel mondo dei videogiochi si dibatte da tempo (il blog della “EA Spouse”, furente perché nel periodo più intenso il marito doveva lavorare sette giorni a settimana, dalle 9 di mattina alle 10 di sera, risale al 2004) ma che ha ripreso vigore di recente, in seguito alle inchieste di Jason Schreier sullo stesso fenomeno dentro Naughty Dog e Rockstar Games.
I pezzi di Schreier hanno anche ravvivato l’attenzione che viene posta alla faccenda, e dunque spinto sia l’attenzione mediatica che gli studi di sviluppo a essere più attenti e a cercare di evitare il crunch, ma – come purtroppo è ben noto – anche ai beniamini dell’industria capita di caderci dentro. Premetto che più o meno tutti quelli a cui ho parlato mi hanno detto che, prima o poi (spesso prima), qualche sessione di crunch gli è toccata. Ma Pietro mi sorprende: appena faccio anche a lui la rituale domanda, mi risponde con un netto no. Poi precisa: “quando ai giochi lavoravamo soltanto noi, io, Paolo [Tajè] e Nicolò [Tedeschi], lì all’epoca facevamo veramente delle cose pazze, nel senso che MirrorMoon l’abbiamo sviluppato tutto in tre mesi e abbiamo fatto tre mesi mortali in cui lavoravamo 16 ore al giorno.” Ma è stato proprio il periodo di lavoro intensissimo ad averli convinti che questo non era un modo salutare di approcciarsi allo sviluppo. Con i progetti successivi “abbiamo tenuto sempre politiche molto stringenti su questo aspetto, e anche un progetto come Saturnalia, che è durato sei anni, con i progetti che abbiamo fatto nel frattempo, abbiamo sempre lavorato 6-8 ore al giorno, massimo cinque giorni a settimana, tranne casi rari in cui è venerdì pomeriggio e ti arriva il bug… ma nel corso di tutto lo sviluppo di Saturnalia questa cosa sarà successa quattro cinque volte, e in questi casi abbiamo sempre fatto recuperare i giorni la settimana successiva”.
il crunch è una presenza regolare nella carriera degli intervistati, e viene spesso imputato a una mancanza di organizzazione
È interessante, comunque, vedere le diverse prospettive. Per esempio Alain, che pure ha passato periodi che hanno dell’assurdo (“I miei amici pensavano che fossi tornato in Italia perché non mi vedevano più”), mi dice che quello che ha passato lui “non era una cosa cinica e sfruttatrice, era l’ingenuità dei tempi”, intendendo che nel periodo da lui passato in Inghilterra l’unico modo che si conosceva di fare le cose era quello. Anche Elisa Farinetti ha un’opinione sfaccettata: se da un lato non condona gli eccessi e lo sfruttamento, dall’altro vuole anche invitare a capire perché succeda. “Il tempo di sviluppo dei videogiochi non è lineare,” chiarisce. “A volte devi preparare una demo, magari per un evento per cui hai solo un mese di preavviso”, e allora lì correre diventa inevitabile. Chiaramente sempre evitando di finire bruciati: “noi prestiamo sempre attenzione alla salute mentale e fisica di chi lavora per noi, abbiamo fatto spesso di lasciare il venerdì pomeriggio liberi per poi tornare più carichi al lunedì. Anche perché è inutile avere lì una persona cotta quelle quattro ore in più a settimana”. L’ultima cosa che ci tiene a dire Elisa sull’argomento è una critica alle Game Jam. “Mi sembra assurdo che diciamo ai giovani che il crunch è una brutta cosa, e poi li mandiamo a fare questi eventi dove stai là 24/48 ore, tutti assieme a programmare tutta la notte. Secondo me quella è esaltazione del crunch.”
Con Daniele Duri la situazione è un po’ spinosa: la questione del crunch dentro CD Projekt RED nei mesi vicini al rilascio di Cyberpunk 2077 è stata su tutti i giornali ed è un po’ l’elefante nella stanza. Lui mi parla in maniera positiva, e serena, del suo rapporto con lo studio: “quando c’è stato da fare crunch in CDP, è stato retribuito, è stato uno scambio paritario. “Ho avuto colleghi che hanno deciso di non fare crunch, magari avevano un bimbo piccolo o semplicemente non volevano farlo, e nessuno li ha forzati. E lavorano tutt’oggi con lo studio”, “era una possibilità, lavori di più e ti paghiamo di più, non lavori di più? Pace”. Com’è ben noto, altre inchieste dell’epoca hanno dipinto in maniera meno rosea la situazione dentro CD Projekt RED in quelle concitate settimane, ma decido che non ha senso pressare ulteriormente Daniele; non perché dubiti della sua sincerità, anzi, ma perché esattamente come con il suo omonimo che ha lavorato in Riot, non voglio rischiare di provocargli noie.
Anche altri, per quanto d’accordo che il crunch sia da ridurre più possibile, trovano che sia una realtà difficile da evitare; per esempio, secondo Gaetano (che, ci tiene a sottolineare, da producer ha sempre cercato di far mantenere ai suoi team dei ritmi regolari con meno crunch possibile perché, mi spiega da sua esperienza, il cervello umano non regge attività impegnative come quella creativa o produttiva per più di 5 o 6 ore consecutive) il problema è più ampio: “sai quante volte ci siamo ritrovati a progettare giochi su carta, implementare i prototipi e accorgerci che non era divertente? E li, se ti va bene puoi correggere alcune cose, se ti va male devi buttare tutto. E se il titolo a cui stai lavorando è una IP famosa annunciata dal publisher in pompa magna allora ti arriva addosso tutta la pressione e se le cose non vanno devi correre correre correre”.
La pressione, seppur di tipo diverso (“noi siamo nella bella e brutta situazione di essere i capi di noi stessi”), la sente anche Maurizio, nel suo caso principalmente nei confronti dei backer di Kickstarter, le cui aspettative non si vogliono deludere. Crunch sì quindi, ma quando serve e stando attenti agli eccessi “lì il crunch, se tu vuoi dare il massimo, ti dà quella spinta in più per dire ‘no, adesso voglio che il gioco sia veramente come dico io’ […] è delicatissimo questo equilibrio tra il mantenere la parola data ma senza esagerare, quindi rendendo sostenibile tutta la lavorazione, e il cercare di non andare oltre, di non esondare dall’idea iniziale, altrimenti fai anche peggio. Il crunch porta anche a odiare ciò che fai, soprattutto se te lo autoimponi”.
SCRIVANIE VUOTE
I licenziamenti nell’industria dei videogiochi ci sono sempre stati, ma è dai primi mesi del 2023 che il fenomeno prende piede a ritmi molto più sostenuti, e non sembra avere ancora avuto fine. Nel momento in cui mi metto a ricontrollare il testo per la pubblicazione sul sito, è recente la notizia della chiusura di Monolith Productions, il cui gioco su Wonder Woman è stato cancellato, di Player First Games, e di WB San Diego. Sul fronte dei licenziamenti non va tanto meglio e nuove sull’argomento costellano le settimane di fine 2024 e inizio 2025, come ad esempio nei casi di Unity e di Heart Machine. Andando qualche mese indietro nel tempo, e tornando più vicini al periodo delle interviste, ha fatto il botto la la chiusura – fra gli altri – di Arkane Austin (Prey, Redfall) e di Tango Gameworks (The Evil Within, Hi-Fi Rush; lo studio ha poi trovato una nuova casa sotto KRAFTON). Per quanto riguarda Tango, gli osservatori non hanno potuto fare a meno di notare come nei mesi recenti Microsoft non avesse avuto altro che elogi per Hi-Fi Rush, descritto come un titolo dai risvolti positivi non solo di critica ma anche di mercato; e recenti dichiarazioni come quella di Matt Booty, che avrebbe posto la recente uscita dallo studio del fondatore Shinji Mikami come uno dei motivi della chiusura, non hanno fatto un buon lavoro nell’alleggerire la situazione. Visto il peso dell’argomento, era inevitabile che decidessi di chiederne agli intervistati.
Fra di loro, per quanto riguarda i licenziamenti, Tommaso li vive in maniera particolare. Non tanto per le modalità in cui avviene – Alienation fa poche vendite, Housemarque si trova costretta a fare tagli, lui è uno di quelli che vengono lasciati a casa; una storia come tante, insomma – ma perché il suo licenziamento viene ripreso quasi in diretta nel documentario The Name of the Game. Devo dire che la scena è di quelle che lasciano il segno: lui che legge la lettera di licenziamento, il ritorno in ufficio per sgomberare la scrivania, le ultime battute coi colleghi. E qualche minuto dopo, lui che guarda il reveal di Nex Machina al PlayStation Experience 2016 dalla televisione di casa sua, mentre i colleghi sono lì in California. Non puoi fare a meno di provare un po’ per dispiacere per Tommaso, che comunque sembra non averla presa troppo male; sicuramente il passare del tempo ha aiutato.
Tornando al caso generale, quando chiedo dei licenziamenti e di quali pensano che siano le cause, che dietro ci sia il boom dovuto al lockdown durante l’emergenza Covid e il conseguente sgonfiamento della bolla in seguito alla fine dell’emergenza è una risposta molto gettonata. Me la danno, per esempio, Pietro (“la teoria principale è che siano stati gonfiati gli investimenti in periodo Covid, poi ci sia stata una contrazione del mercato. A me sembra abbastanza realistica”), Daniele Duri (“ho l’impressione che con gli anni del Covid la gente abbia investito sui videogiochi, hanno investito troppo e ora si fanno i conti”), Elisa Di Lorenzo (“con la pandemia sono arrivate palate di soldi”, “in periodo di vacche grasse, quando c’erano secchiate di soldi, si sono fatti investimenti sconsiderati”) Tommaso (“c’è stata sicuramente una sovra-assunzione durante il periodo Covid”, “c’era un po’ l’assunto che ‘sto periodo di gente continuamente online sarebbe continuato all’infinito”), Elisa Farinetti (“è una conseguenza degli investimenti del Covid, quando eravamo tutti chiusi in casa”) e Daniele Corrado (“è una sorta di ritorno d’onda del lockdown del Covid”). Che il coronavirus, il conseguente lockdown e il ritorno alla normalità abbiano giocato un ruolo importante nell’ondata di licenziamenti è una teoria quasi universalmente accettata, ma è altamente plausibile che altri fattori abbiano giocato la loro parte.
boom del covid, tempi di sviluppo sempre più lunghi, costi sempre più elevati: l’attuale situazione di difficoltà ha molte cause concorrenti
Fra gli intervistati, sono comuni la preoccupazione, l’indignazione e anche un certo senso di disillusione. Pietro mi dice che trova “abbastanza realistica” la teoria secondo cui i licenziamenti sarebbero un modo rapido di tagliare le spese e aumentare i profitti, prima di specificare che “dal punto di vista etico, la trovo una cosa triste. È un sacrificio fatto in nome di una speculazione che sicuramente non può fare bene a lungo termine all’industria e al medium”. Poco dopo parliamo della chiusura di Roll7, lo studio di OlliOlli e Rollerdrome (vincitore del BAFTA per British Game). “Tu devi vederla su una tabella di Excel, dove tu hai lo studio, il costo annuale è di tot, tra quanto esce il gioco nuovo? Tra tre anni, quindi per i prossimi tre anni sono solo costi, quindi se lo chiudo ora è come se avessi fatto un profitto”.
Altri sono anche meno diplomatici, come Daniele Corrado quando parla dei CEO che effettuano tagli drastici di personale dandosi allo stesso tempo bonus milionari. Due esempi fra i tanti, fin troppo comuni, per contestualizzare l’argomento. Ad agosto del 2023, quindi con campagne di licenziamenti già avviate, Take-Two, la stessa compagnia che ha deciso la chiusura di Roll7, ha aumentato lo stipendio del CEO Strauss Zelnick da 16 a 42 milioni annui. Per mettere un termine di paragone, il salario annuo di Shuntaro Furukawa, omologo di Zelnick presso Nintendo, è di 2,5 milioni di dollari. Più recente è il secondo esempio, che riguarda Bungie: nel periodo fra ottobre 2023 (quando lo studio di Destiny e Marathon ha licenziato 100 dipendenti) e luglio 2024 (quando è toccato ad altri 220 dipendenti, mentre circa un centinaio sono stati integrati in Sony), il CEO Pete Parsons ha speso circa mezzo milione di dollari su un sito di aste automobilistiche. Fra i suoi acquisti c’è stata una Porsche 911.
Daniele Corrado chiarisce che secondo lui questi CEO “vedono le persone come pedine, non come esseri umani. Questa persona qui vede il resto dell’azienda come minmaxare le statistiche di un personaggio. Non è che pensi che togliendo questo punto in forza, i figli di questo punto in forza non abbiano più da mangiare eccetera eccetera, il tuo scopo è fare il personaggio più figo che esista e darti una pacca sulla spalla sotto forma di soldi”. “Non riesco a capire come fai a dormire bene la notte”, aggiunge. Zeno fa l’esempio di Embracer Group, che ha acquisito decine di studi di piccole e medie dimensioni nel corso degli anni, prima di diventare un ospite fisso nelle notizie di licenziamenti e chiusure dal 2022 in poi. “Mi sembra veramente orribile, che cosa state facendo? Giocate con i soldi e con le persone come stessimo giocando al Monopoli”, commenta. Anche Maurizio esprime sentimenti simili, sottolineando come farsi acquisire da un lato porti vantaggi, ma dall’altro “spesso le decisioni vengono prese da gente molto più in alto, che manda via singoli sviluppatori recidendoli come tanti steli d’erba, senza nemmeno conoscere i talenti che hanno. Ho sempre un po’ paura di questo tipo di decisioni perché diventiamo numeri, non più persone”.
“purtroppo la situazione è questa, quello che puoi farci tu è vederci qualche opportunità”
Verrebbe da pensare che Filippo, che lavora come freelance, sia abbastanza al sicuro da queste preoccupazioni. Ma in realtà oltre alla naturale preoccupazione per gli amici che lavorano nello stesso settore, i recenti trend hanno avuto un impatto anche su di lui. “I Mimimi erano dei partner con cui, conoscendoci da più di 10 anni, si era instaurato anche un rapporto umano, molto bello, di amicizia. Però a livello di freelance, l’idea di sapere che ogni due-tre anni hai un progetto che per un anno sei preso full time, è un grande lusso. E questo me lo sono visto spazzato via in un attimo”, mi racconta, riferendosi alla chiusura dello studio, avvenuta ad agosto 2023 per decisione dei fondatori, che citavano le poche vendite unite alla difficoltà di trovare finanziamenti come motivi principali della scelta. “Sento anch’io questa instabilità, questa insicurezza che si è andata a instaurare nell’industria in generale, con publisher più cauti, sviluppatori che hanno paura di fare cose diverse,” prosegue. “C’è una sensazione di incertezza abbastanza chiara in tutta l’industria”, che ha finito per colpire anche lui: “a livello personale sento molto questa cosa, anche perché tanti dei miei classiconi hanno chiuso, stanno per chiudere o sono in difficoltà”. Un’esperienza condivisa anche da Elisa Di Lorenzo e da Untold Games, per i quali una parte importante del lavoro proviene da terze parti. “Noi siamo stati impattati, nel senso che l’anno scorso progetti su cui dovevamo lavorare non sono partiti”, mi racconta. “L’impatto a strascico arriva su tutti, è comunque più complesso oggi, anche il lavoro di supporto e porting perché le aziende con cui lavoriamo tirano i remi in barca per tenere più capitale possibile, per cercare di reggere il colpo”. Elisa, comunque, condivide lo stesso ottimismo della sua omonima. “Quando ci sono situazioni così, il mercato ti dà opportunità, perché si aprono delle finestre, perché i giocatori che vogliono determinate cose là fuori ci sono.” Anche nel suo caso l’ottimismo non significa chiaramente allegria per l’attuale situazione, anzi. Ma quando l’obiettivo è tirare avanti uno studio, devi essere pronto a imboccare le strade che ti si aprono davanti.
NUOVE TECNOLOGIE
L’ultima domanda che ho fatto agli intervistati riguardava le IA generative. Questo è un tema che a differenza di crunch e licenziamenti è stato meno trattato nelle discussioni mainstream – perlomeno in Italia, da quello che ho visto – ma è quello che ha il potenziale maggiore di cambiare come pensiamo e come si svolgono i lavori creativi nei prossimi anni. Per IA generative, si intendono programmi capaci di restituire, partendo da poche parole (il cosiddetto “prompt”) una risposta di testo articolata (ChatGPT), un’immagine (Midjourney, Stable Diffusion), una canzone (suno.ai), eccetera. Si tratta di un mercato che secondo molte grandi compagnie rappresenterà il prossimo passo nell’evoluzione del mondo tech: fra 2019 e 2023, per esempio, Microsoft ha investito ben 13 miliardi in OpenAI. E queste sono briciole rispetto ai 500 miliardi che il presidente americano Donald Trump ha detto di voler investire nel progetto Stargate, una serie di investimenti nell’infrastruttura tecnologica volta ad assicurare il primato statunitense nel campo dell’intelligenza artificiale. Tornando al mondo dei videogiochi, Square Enix è stata una delle più vocali su questo argomento, con il presidente Takashi Kiryu che a inizio 2024 ha dichiarato pubblicamente che l’approccio della sua compagnia nell’applicare l’IA sarà “aggressivo”, ma scopriremo ben presto che anche fra i piccoli sviluppatori non mancano le considerazioni sul loro utilizzo.
Che le IA generative abbiano un potenziale enorme è innegabile. Ma ci sono anche problemi non da poco di cui tenere conto
Fra gli intervistati, il punto di vista sull’IA è complesso. Da un lato, non sono pochi quelli che ne riconoscono il potenziale, magari facendone già uso, come Tommaso. “Quando devo generare delle idee, io ChatGPT lo uso senza pensarci due volte, e spesso mi fornisce delle belle idee”, specificando che si tratta appunto di idee e non di dialoghi o testi che poi finiranno nel gioco. Pietro mi dice che secondo lui possono essere uno strumento valido per “effetti sonori, musiche, texture, immagini, illustrazioni che non finiscono nel gioco reale, ma che vengono utilizzate come reference, per capire come sta prendendo forma il progetto”. Francesco crede “che possano essere un’ottima risorsa da utilizzare per aiutare e velocizzare alcuni step di processi produttivi e di sviluppo”. “Ci siamo subito interessati e ci siamo anche divertiti a sperimentarle, e continuiamo a farlo,” mi racconta Adriano. Elisa Farinetti mi dice che non si fa problemi a usare le IA quando ha bisogno di materiali di reference, o quando magari vuole idee su quale può essere un buon modo di presentare qualcosa in forma scritta. Anche Elisa Di Lorenzo parte da una prospettiva simile: le descrive come una cosa “potenzialmente meravigliosa”, perché “dal punto di vista di etica e logica se tu hai questo tool che puoi utilizzare per affiancare le persone e semplificare il loro lavoro, secondo me sono qualcosa che dovremmo abbracciare”. La sua posizione, però, non si ferma all’entusiasmo: “oggi non stiamo sviluppando l’intelligenza artificiale per aiutare le persone, la stiamo sviluppando per fare profitto”; “io non sono contro l’IA, io sono contro come portiamo avanti l’IA”. E la spiegazione per questa tendenza, secondo Elisa, va ricercata a livello sistemico.
Daniele Duri e Filippo fanno, ciascuno a modo loro, un discorso simile, ragionando sull’evoluzione della tecnologia e quindi degli strumenti a disposizione di chi fa certi lavori. Daniele Duri, da animatore qual è, mi parla dello shift fra animazione tradizionale e 3D nel corso degli anni ‘90: “tanti animatori che prima sapevano animare a mano disegnando ogni frame, poi hanno avuto un bridge verso l’animazione 3D perché alla fine i principi sono gli stessi, è solo che cambia il medium, ma se non hai l’occhio dell’animatore, non puoi fare un buon lavoro.” Filippo, in maniera simile, mi parla di come si è evoluto il modo di fare musica: “se dovessi parlare con qualcuno degli anni ‘50, ‘60, e gli raccontassi che se sbagli una nota basta che la sposti e va bene così, mi direbbe ‘va be ma questo non è far musica’. Quindi già adesso parliamo di tutto un altro set di capacità, di agevolazioni per un musicista.” Lui, comunque, resta convinto che il processo creativo abbia bisogno dei suoi tempi: “trovo che il valore che puoi provare per te stesso nell’aver creato qualcosa è proporzionale anche alla fatica che hai fatto, ma non perché bisogna per forza far fatica, ma perché alteri tante cose in un processo che dura nel tempo, non puoi zipparlo”. “Sono comunque un grande fan del tempo allungato”, mi dice. Filippo non è solo, comunque: se l’IA viene vista sotto luce positiva, tutti rimarcano anche l’importanza del contributo umano. Alain, per esempio, spiega come nel lavoro che fa sia importante non solo inserire il termine giusto al posto giusto secondo un vocabolario, ma anche secondo il contesto: “se tu mi paghi per fare Halo, non è soltanto per mettere lì un termine che significa fucile. Mi paghi per portare avanti una visione d’insieme.” Per spiegare meglio cosa intende, fa l’esempio di Cuphead: “è un gioco nostalgico basato sui cartoni animati degli anni ‘30. Noi italiani avevamo Mussolini negli anni ‘30, perciò non li abbiamo nel nostro immaginario. Quindi il nostro obiettivo è diventato di darti quel feeling di leggere i vecchi Topolini, quelli che sanno di muffetta, che è una nostalgia parallela a quella del gioco originale. È paradossale, ma per darti la stessa emozione, abbiamo preso una cosa sui cartoni degli anni ‘30 e l’abbiamo adattata sui fumetti degli anni ‘50. È quello il mio lavoro.”
Le preoccupazioni di tipo etico, legate al diritto d’autore, sono molto comuni fra gli intervistati: Maurizio, che considera le IA generative un “validissimo strumento”, mi parla dell’inadeguatezza legislativa, della preoccupazione per gli effetti sul mercato del lavoro (“non potendo licenziare persone che non esistono, di sicuro [le aziende] non andranno ad assumerne di altre”). Da persona che ha lavorato nell’animazione, poi, Maurizio è rimasto colpito dalla notizia che anche Disney e Pixar utilizzeranno l’IA: “magari faranno anche cose eccezionali, però mi è un po’ dispiaciuto vedere questo passaggio che sembra spersonalizzare l’identità e la creatività di una singola produzione. Poi dietro ci saranno persone bravissime e i prodotti saranno ottimi,” specifica, “però lì per lì leggere questa notizia mi ha dato un senso di profonda tristezza.”
“Risolvere il problema del copyright pone un’altra questione etica sul divario tecnologico e di opportunità”