Chissà, nel Natale del 1917, come si immaginavano quello del 2017. Forse non se lo immaginavano nemmeno, impegnati com’erano i nostri antenati a leccarsi le ferite di una Grande Guerra ancora in corso (con i morti di Caporetto da piangere e l’Armistizio di Compiègne ancora da venire). Chissà se i soldati al fronte guardavano con stupore il cielo, stupefatti dalla presenza dei Fokker tedeschi o dei bombardieri russi Sikorsky, quando fino a una ventina d’anni prima non si poteva nemmeno far finta di sognare che l’uomo si sarebbe librato in volo come fanno gli uccelli. Chissà che faccia farebbe un ragazzino di quell’epoca se si potesse sollevarlo per i capelli e trasportarlo ai giorni nostri, attraverso una macchina del tempo: lo shock, con buona probabilità, avrebbe inizialmente vittoria sulla voglia di scoperta; un po’ alla volta, però, il giovane assorbirebbe il contraccolpo e comincerebbe a guardare con curiosità tutte quelle cose che ci ha donato il progresso tecnologico, videogiochi compresi.
E chissà, ora che il Natale del 2017 è giunto per davvero, come ciascuno di noi si immagina quello del 2117. Ci siamo già assuefatti alla presenza dei videogiochi nella nostra vita: è un fatto che le nuove generazioni danno per scontato, ma che fino a trent’anni fa non lo era per nulla. Per noi di una certa età i videogiochi sono stati come gli aeroplani per quegli uomini di un tempo lontano, sospesi tra il fango delle trincee e l’incredulità del volo: li abbiamo guardati con stupore sempre più crescente, quasi non capacitandoci che si potessero fare certe cose (la folla attorno al cabinato di Dragon’s Lair al bar del centro del mio paese è stampata imperituramente nei miei occhi). Oggi, però, guardiamo al 4K e al fotorealismo un po’ di sbieco, e quasi per rigetto ci facciamo nuovamente ammaliare dall’essenza del gioco in sé: il successo di Switch, da questo punto di vita, è probabilmente figlio anche (ma non solo) di un percorso epifanico che i più vecchietti di noi stanno – chi più, chi meno – completando.
Chissà a cosa giocheranno i giovani tra cent’anni
Vorrei poter salire su quella benedetta macchina del tempo e vedere di persona. Proprio come il ragazzino del 1917, avrei bisogno di più di un momento per riprendermi dallo stordimento, ma la curiosità prenderebbe il sopravvento in fretta. E tuttavia, seppur affascinato da tutto ciò che troverei, non rinuncerei a prendere in mano un joypad per mostrare a quelle generazioni come nel loro presente ci sia tanto del nostro. Mi porterei dietro uno SNES con Super Mario World, un Dreamcast con Jet Set Radio, un PC con DOOM e Civilization, un GBA con Kuru Kuru Kururin e una PS4 con Bloodborne. Vorrei giocarli tutti, nel 2117, anche solo per vedere l’effetto che fa e per raccontare ai giovani di quel periodo del nostro stupore; di quanto accidenti era bello lasciare i mali del mondo fuori dalla finestra, anche solo per qualche ora, accendendo una console e l’immaginazione. Alzerei poi gli occhi al cielo, li chiuderei e proverei a immaginare – ancora una volta – la sorpresa del ragazzino di un secolo fa di fronte a un uomo che vola. Infine, prima di tornarmene indietro, chiederei al ragazzino del 2117 come ipotizzerebbe la vita dei suoi discendenti, nel 2217. Perché, alla fin fine, ogni generazione ha bisogno di qualcosa in cui sperare e di un futuro da immaginare. Anche se si parla solo di futilità e di cose piccole, come lo sono i videogiochi.