Esport: per me anche no, grazie!

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Da quando il Comitato Olimpico Internazionale, lo scorso ottobre 2017, ha riconosciuto gli esport come una disciplina sportiva competitiva, per via del fatto che i giocatori professionisti si allenano e offrono prestazioni paragonabili a quelle degli atleti di altri sport, ovunque spuntano rubriche che ne parlano: dalla stampa specializzata a quella generalista, senza esclusione di colpi. Prima lo facevano in pochi… ma non sto dicendo che non ci credessero, eh! Solo che quando Luca Cassia, conosciuto ai più come Adso da Melk, raccontava sulle pagine di TGM come portò il netgaming in Italia con NGI – e QuakeWorld – alla fine degli anni ‘90, per poi arrivare all’organizzazione di World Cyber Games, NGI LAN e SMAU ILP, l’esport se lo filava seriamente una manciata di giornalisti e solo in occasione delle manifestazioni più importanti.

Sì sa, però, che quando un argomento “tira” bisogna spiegare le vele e farsi portare finché il vento non cambia direzione o smette di soffiare. Giusto così, anche perché in questi anni ho assistito a diversi eventi ufficiali per fatti come Counter-Strike, Gran Turismo Academy e StarCraft, ed è stato facile capire fin dalla prima volta che là fuori c’è un mondo di ragazzi(ni) piuttosto infoiati, che affrontano l’argomento con fare tutt’altro che superficiale. Io stesso ho partecipato alle selezioni per gareggiare nelle finali di Monza dei World Cyber Games del 2006 con WarCraft III: Frozen Throne, ma il sogno si è infranto al primo turno contro quello che, lì per lì, venne presentato da Rosita Celentano come il campione italiano di quella specialità, di cui però non ricordo il nome e che non sono riuscito a trovare nemmeno grazie a Google.

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Sono più attratto da uno scalatore che stacca Indurain sul Mortirolo, come fece Pantani

Oggi, però, che viaggio in direzione de “i miei primi quarant’anni”, degli esport me ne frega il giusto, ossia nella misura in cui rappresentano una disciplina a cui si affacceranno moltissimi giovani e di cui bisogna tener conto quando si parla del medium, pur non provando qualsivoglia trasporto emotivo nell’assistere a una partita importante, come invece sembra essere per quei ragazzi(ni) di cui sopra, ormai abbastanza cresciuti da ritrovarsi spettatori di quelli venuti dopo, con tanto di famiglie a carico e Counter-Strike tatuato sull’avambraccio. Io, al contrario, non sono stato toccato dalla passione per quella competizione, e ancora preferisco guardarmi le finali dei mondiali di atletica leggera, ginnastica artistica o dei 1.500 metri stile libero, senza contare quelle delle discipline marziali. Non cito volontariamente sport con una base più allargata come il calcio, la pallavolo o il basket, perché il punto non è quello di “vincere facile”, ma di esplicitare quanto io possa essere molto di più attratto da uno scalatore che stacca Indurain sul Mortirolo nel 1994 come fece Marco Pantani, o dal gesto di scrollarsi dalle mani la magnesite in eccesso quando si attacca una falesia o una parete in una palestra di bouldering.

È questione di coinvolgimento sensoriale, e nel sapere che questa opinione è un IMHO grosso come un cabinato di SEGA Rally, tra l’assistere dal vivo a una gara di Formula 3 o vedere i piloti della GT Academy gareggiare in una stanza illuminata dai neon per me non c’è alcun confronto possibile, se non quello dell’impegno dei piloti e delle ore passate ad allenarsi. Quindi ci sta che un Claudio Todeschini possa arricciare il naso alle uscite infelici di Giovanni Malagò, presidente del CONI, sul tema esport (qui l’editoriale relativo), perché il rischio di discriminazione è lì dietro l’angolo, ma come performance atletica io prediligo ancora quella del corpo tutto, a prescindere che la sfida possa essere analogamente impegnativa o che la preparazione possa richiedere lo stesso numero di ore. Insomma: viva gli esport(ivi), ma per me anche no, grazie.

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