Me lo ricordo bene, quel maledetto 28 gennaio del 1986. Avevo 14 anni e, con la complicità di un amico di scuola che mi aveva trasmesso la passione per l’astronomia, avevo già deciso da un po’ che sarei diventato un astronauta. La Terra – comunque bellissima e così poliedricamente sfaccettata – era un posto troppo stretto per contenere la dirompente curiosità dell’ignoto che albergava nel mio cuore; lo spazio, invece, poteva regalarmi almeno l’impressione di “spingermi oltre”, pur nella consapevolezza che sarei dovuto nascere alcuni millenni più avanti per avere l’opportunità di viverne per davvero l’epopea. Sarei comunque stato un pioniere e avrei partecipato alle missioni spaziali col gusto di sapere che le mie gesta avrebbero fatto da apripista per coloro che, con lo stesso gusto di viaggiare nel futuro, sarebbero venuti dopo. Avrei studiato e vissuto per quello, fino allo spasimo. E invece, alle 17:39 di quell’infausto martedì di 32 anni fa, tutto cambiò.
L’esplosione in cielo non segnò solo la triste morte di sette persone (di cui una era un’insegnante – incarnazione vivida dell’uomo qualunque – che avrebbe dovuto tenere una lezione via satellite dal Challenger), ma anche uno stop potentissimo agli investimenti nel settore e, parallelamente, la fine dei sogni di molte persone, tra cui quelli del sottoscritto. Oggi, nel 2018, possiamo certamente dire che la corsa allo spazio è ripresa alla grande, e che le numerose missioni che coinvolgono più nazioni diverse sulla ISS sono un esempio di come la cooperazione tra Stati, fuori da logiche “celoduristiche”, possa donare un nuovo impulso verso l’esplorazione di luoghi lontani dalla nostra Madre Terra. Ciò non toglie che il 28 gennaio del 1986 qualcosa si spense nel cuore dell’umanità e – come detto – un po’ anche nel mio.
Credo che i miei viaggi spaziali, per quanto “virtuali”, suscitino emozioni abbastanza prossime a quelle provate da chi, dalla ISS, fotografa oggigiorno la Terra
Certo, il privilegio del respawn (che purtroppo non ha avuto l’equipaggio del Challenger) toglie un po’ di tensione emotiva all’esperienza, ma l’innata voglia di andare nello spazio e incontro all’ignoto è in me rimasta potente come quando ero poco più che un ragazzino. I videogiochi, in questo senso, alimentano continuamente il mio desiderio di spazio (che – ahimè – è ormai destinato a rimanere tale) e mi ricordano quanto io sia privilegiato a poter dedicare una parte del mio tempo a immergermi in altri mondi e a visitare luoghi fantastici. C’è chi questa possibilità non l’ha mai avuta, come quei poveracci che ogni giorno scappano dalle guerre o devono farsi venti chilometri a piedi per riempire una tanica d’acqua da riportare al villaggio; o c’è chi, invece, ha avuto la chance di viverlo sulla pelle quel sogno, salvo poi perdere la propria vita quando mancava un unico piccolo passo alla meta, per colpa di una fottutissima guarnizione.
i videogiochi possono regalare emozioni “vere”