La definizione di survival è oggi adoperata più che mai, al punto che è facile naufragare in mezzo a mille parametri, elementi di crafting, generi diversi tra loro e, in generale, in una serie di caratteristiche che non sono sicuro siano cinquanta, ma in un dossier approfondito potrebbero anche diventarlo. Questa, però, è solo una riflessione nata dal contingente: è sopravvivenza anche quella gestional-strategica di Impact Winter, che sto riprovando in questi giorni su console, e ancor più lo sono la struttura e le dinamiche di This War of Mine e Frostpunk di 11 bit Studios (uno sviluppatore che sembra far la differenza, persino quando allarga lo sguardo su un’intera società), per motivi che tengo volentieri per la conclusione dell’articolo.
Naturalmente odorano fortemente di survival anche le dinamiche di Playerunknown’s Battlegrounds , di H1Z1 e di altre Battle Royale, anche se ho avuto modo di scrivere (sul prossimo numero della rivista, a breve in edicola) come, nel caso di Fortnite, le fragranze si orientino di più verso un gigantesco Last Man Standing, sebbene arricchito da quintali di crafting.
c’è più sopravvivenza nel rapporto fra Link e la natura di Breath of the Wild che non nelle alte mura o scale craftate in un attimo in Fortnite
Tornando all’ambiente online, tanti e ottimi insegnamenti sono provenuti dall’eterna Cenerentola di DayZ, laddove l’infinita incompiutezza di Chernarus (a breve, quasi per paradosso, la versione Xbox One) non ha comunque lesinato su dettagli e regole globali di un’ambientazione realistica nel senso della “verosimiglianza”, indipendentemente dalla presenza di elementi soprannaturali: nella sua forma di base, il gioco di Dean Hall non è una Battle Royale ma, paradossalmente, è proprio l’assenza di più precise regole competitive ad aver lasciato spazio a una “magistrale barbarie” tra utenti, in cui è risultato presto chiaro il fatto – banale ma sibillino – che gli zombie erano l’ultima cosa su cui si concentrava lo spirito di sopravvivenza “agonistica” (roba da bullismo digitale, a volte) di singoli o gruppi di giocatori. D’altra parte, proprio i survival horror classici sono tornati a essere tali quando gli elementi ambientali hanno riguadagnato il peso della sfida, e per farlo si sono andati a ibridare – almeno nei casi supremi di Alien Isolation e Resident Evil 7 – con giochi in soggettiva dove la credibile vulnerabilità dei protagonisti e/o i nemici invincibili risultano coesi in modo unico e coerente: Capcom e Creative Assembly hanno semplicemente pensato che, con buoni tratti descrittivi, la presenza contestuale di armi e crafting non avrebbe inficiato la sensazione di trovarsi lì, in una magione maledetta o in una stazione spaziale abbandonata. Nel discorso entrerebbe anche Prey, con la sua coerenza nel verso della simulazione, ma la caparbia varietà del gioco di Arkane Studios rischierebbe di portarci su strade diverse e ancora più impervie, così eclittiche che è meglio affrontare altrove.
I survival horror classici sono tornati a essere tali quando gli elementi ambientali hanno riguadagnato il peso della sfida