Silenzio, parla Artyom

Silenzio, parla Artyom

Immaginate di trovarvi nella vostra umile dimora quando, d’improvviso, bussano alla porta, nel cuore della notte. Aprite, e vi trovate dinanzi un tipo poco raccomandabile: si tratta di Geralt di Rivia! Forse avete sentito parlare di lui: lo conoscete come il “Carnefice di Blaviken”. I racconti, però, non gli rendono giustizia. Questo “essere” ha i capelli bianchi, gli occhi gialli come quelli di un felino predatore; sul corpo veste una giubba lacera che è eloquente testimone dei fendenti delle lame e sulla schiena reca due minacciose spade. Vi chiede informazioni, e voi che fate? Io, francamente, gli risponderei in maniera chiara e concisa, sperando che – soddisfatto – se ne vada il più presto possibile risparmiando sottoscritto e famiglia.

I videogiochi, invece, preferiscono un approccio diverso, meno realistico, se mi è concesso. Nella missione “Questioni di famiglia” di The Witcher III: Wild Hunt, il Lupo Bianco necessita di indicazioni sull’ultima posizione nota della moglie e della figlia del Barone Sanguinario. Voytek, un umile pescatore, è l’obiettivo della quest. Geralt lo “affronta” con una domanda semplice, netta, veicolata dallo stile asciutto e diretto che lo contraddistingue, sia per ragioni di personaggio che per evitare – forse – un numero eccessivo di frasi da doppiare. “Ho solo bisogno di informazioni.” dichiara lo Strigo “Sto cercando due donne – la moglie e la figlia del Barone Sanguinario”.

«I SAW A MUDCRAB…»

Superato il canonico “non so niente, non ho visto nulla”, si aprono le acque e il pescatore, invece di rispondere in maniera succinta, tira fuori il poeta che in lui si celava sopito, mentre il tizio di cui sopra, che mette paura, attende che termini lo sproloquio. Fra i vari passaggi mi preme citare il più significativo: “Divenne ancora più buio, come se qualcuno avesse smorzato le stelle. D’improvviso, i grilli si ammutolirono e poi, dai boschi, un ruggito. Questo mi provocò sudori freddi e prima che potessi riprendere fiato una bestia balzò fuori dai boschi – grossa come un fienile, con corna e due carboni ardenti per occhi”. Poi, su imbeccata della moglie, Voytek aggiunge: “Io, personalmente, non avrei mai osato aiutarle. Ma la mia signora mi ha detto – è giunto un tempo di guerra e di disprezzo, un tempo di gente finita male. Dobbiamo ripagare il bene con il bene, chi rimane ignavo è come se compisse il male”.dialoghi videogiochi

“Parla poco, parla piano e parla chiaro” è il consiglio di John Wayne

Questo dialogo, oltre a recare con sé le stigmate dell’incredibile, veicola un’esposizione della durata di cinque (!) minuti di tempo di gioco, lenta come la melassa, fra aulicismi, trite metafore, e un bestiario che passa con disinvoltura da grilli a stormi di volatili, transitando per l’immancabile bestia cornuta con gli occhi di bragia. Parole che ben poco si sposano al lessico che ci attenderemmo da una coppia di villici. E questo è solo un esempio, per non parlare di quegli NPC che rispondono alle richieste del Nostro con ricatti economici o fetch quest interminabili prima di dispensare l’informazione chiave, altrimenti inottenibile in un mondo open world, dove alcune alternative sarebbero gradite.

A fronte di tutto questo, vorrei rievocare The Elder Scrolls IV: Oblivion. Nel quarto capitolo della fortunata saga di Bethesda i personaggi, diretti dalle scrupolose istruzioni della radiant AI, muovono e si incontrano per brevi istanti concependo dialoghi che recano i crismi dell’ordinario, disquisendo sovente di perniciosi granchi del fango: esserini orrendi che si annidano nel bagnasciuga del Lago Rumare. Elemento, questo, che ha ingenerato forti critiche per via di una innegabile banalità e ripetitività dei contenuti. Siamo chiaramente di fronte a due sistemi antipodici di progettare l’esperienza ludica, a livello di dialoghi e interazioni con i personaggi. Dei due modelli, tuttavia, il secondo mi sembra il più verosimile: la quotidianità della serie TES contro una certa magniloquenza che può essere rilevata, per esempio, nei lavori di Obsidian.

«ENDURE… IN ENDURING GROW STRONG!»

Detto questo, per non essere frainteso, ci tengo a precisare che sono un avido “collezionista” di fatterelli e boutade (perché ricorderete tutti, immagino, l’aneddoto di Garrus sull’allungo e la flessibilità); inoltre, ascolto con particolare e piacevole attenzione i dialoghi degli NPC, spaziando da sapienti audionastri abbandonati nelle umide profondità di un’utopia inabissata a riflessioni marcatamente introspettive, poiché dissertare con Dak’kon in merito al Circolo di Zerthimon non ha prezzo.dialoghi videogiochiEppure, trovo talvolta forzata l’esposizione di quei personaggi che si esprimono per aforismi, enunciati forse troppo perfetti che intrecciano, sul proscenio del videogame, una vera e propria recitazione mirata a muovere e commuovere, a stupire per le ricercate similitudini. Anche perché c’è sempre un prezzo da pagare: un immobilismo quasi assoluto a livello di gameplay che, per esigenze di regia, dispensa cutscene dal sapore hollywoodiano, laddove siamo costretti a deporre il mouse in attesa che la rappresentazione abbia termine.

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