Arriva un momento nella vita in cui alcune persone si riproducono, per scelta o per incidente. Di solito si ironizza sulla rottura del preservativo, nel mio caso a rompersi fu il cavo HDMI impedendomi di giocare con la PS3 quella sera. E a quel punto tocca iniziare a pensare a un concetto importante: l’educazione.
Solitamente quando si sparge la voce che è in arrivo un nuovo PG, inizia la gara tra colleghi, parenti, amici e conoscenti a chi fornisce il consiglio più vitale sulla crescita del piccolo: come dargli da mangiare – fammi indovinare, per la bocca, quel buco in faccia dove si infila il cibo? – come addormentarlo, come svegliarlo, lavarlo, pettinarlo, vestirlo e, dulcis in fundo, educarlo. Per scongiurare che il nascituro segua le orme di Hannibal Lecter, bisogna insegnargli dei valori. Sempre. Costantemente. Anche quando gioca. Altrimenti, una volta cresciuto, ti “inviterà a pranzo”. I libri sul tema si sprecano, e osservando l’offerta è facile capire come la domanda sia notevole, segno che molti genitori decidono di affidarsi ai voluminosi tomi in questo passo così importante. Niente di più sbagliato.
Io ho insegnato i valori fondamentali a mia figlia per mezzo dell’arte più formativa che ci sia: il videogioco. Sia chiaro, non ho rivoluzionato nulla. Da sempre si è cercato di coniugare educazione ed apprendimento con le attività ricreative. Quando ero piccolo io, c’erano i cosiddetti “Giochi Intelligenti”. Venivano chiamati così perché si riteneva che se un bambino si fosse dedicato a un “Gioco Intelligente”, avrebbe sviluppato capacità cognitive sovrumane, mentre gli altri sarebbero rimasti a viver come bruti. Avere un figlio appassionato di Monopoli era motivo di orgoglio: speculazioni immobiliari, compravendita di terreni, imprevisti e probabilità da gestire, nell’immaginario genitoriale si sarebbero forgiati gli imprenditori di domani. Tutt’altra considerazione ricevevano i soldatini. Che senso aveva giocare alla guerra tutto il giorno? E poco importa se a Monopoli il più delle volte ci si limitava a lanciare i dadi e compiere banali azioni dipendenti unicamente dalla casella in cui ci si trovava. Era un “Gioco Intelligente”, punto. “Mamma, guarda, sto giocando a Monopoli, tiro i dadi, doppio quattro che fa sette – cominciamo bene – evviva sono capitato sulle blopapirità (sic), mi leggi tu il bigliettino che ha tante parole difficili?” “Oh, ma che bravo il mio bambino, si vede che è portato, diventerà un top manager.” “Mamma, guarda, ho riprodotto la seconda battaglia di Al Alamein con i miei soldatini, simulando centoquarantadue diversi esiti a fronte di altrettante formazioni della Leichtdivision, e le conseguenze che avrebbero portato sull’intero conflitto mondiale. Ad esempio, se il 28 ottobre 1942…” “Uff, sempre a giocare, hai già finito i compiti di storia?”. Dell’appeal che avevano i “Giochi Intelligenti” sui genitori aka “quelli che pagano” era ben conscia la Commodore, che nei suoi primi spot commerciali, prendendo le distanze da Intellivision e Atari, spiegava come il Vic20 non fosse un semplice videogioco, ma un potente elaboratore che avrebbe migliorato il rendimento scolastico dei giovani fruitori. La promessa che grazie al C64 i miei voti sarebbero raddoppiati, triplicati, decuplicati, aprì le porte della mia cameretta all’immortale biscottone, con tanto di piccolo televisore sul quale invece di grafici e fogli di calcolo si potevano ammirare Impossible Mission e Jet Set Willy. Inutile dire che il mio profitto scese in picchiata, ma qualcuno doveva pur fermare il perfido Elvin Atombender.
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