Un franchise di cui tutti si sentono in dovere di sentenziare l’autenticità, ma nessuno che riesce davvero a descriverci com’è un vero Resident Evil. La verità dov’è?
Non sono mai stato quel tipo di giocatore che chiude la propria felicità in un cassetto del passato e poi butta la chiave. Il mondo è un posto oscuro e indecifrabile: c’è Tik Tok, le cantanti pop si esibiscono senza vestiti in videoclip ammiccanti e Justin Bieber è un cretinello da quattro soldi. Tutto giusto e sicuramente oggetto di ampie discussioni, ma quell’idea del “i bei tempi del Commodore 64, oggi tutto grafica e poca sostanza” è qualcosa che mai ho digerito.
Gli appassionati più integralisti di Resident Evil fanno spesso il paio con quelli che ricordano Dino Crisis come un simil campolavoro e ne invocano un remake
In una
live pubblica con tutta la redazione di
TGM, non molto prima dell’uscita del remake di
Resident Evil 2, mi ero tolto un sassolino dalla scarpa, criticando tutta quell’utenza così fossilizzata sui capitoli originali – per i quali siamo certo d’accordo sull’importanza storica e qualitativa – da arrivare a elogiare senza limiti i comandi, in special modo il tank control, a far coppia con altri appassionati che ricordano
Dino Crisis come un simil capolavoro e ne invocano un remake al più presto; anche qui, basterebbe fermarsi un momento e ragionare per rendersi conto di essere vittime di un falso ricordo. Specie quando si rievoca una memoria di decine e decine di anni fa, e ne abbiamo avuti tutti la prova con i remake dei tre
Crash Bandicoot, può capitare di chiedersi se anche prima quei giochi fossero così difficili o, magari, siamo noi a essere regrediti in una confort zone derivata dal periodo storico che stiamo vivendo.
Ritornando a quella live, il buon Mario – dopo la mia uscita – equilibrò il clima per paura che quelle mie parole potessero offendere qualcuno, ma chiaramente erano dichiarazioni leggere se confrontate a quelle che si leggono oggi – o ieri – riguardo ogni nuovo capitolo numerato della saga di Resident Evil. Quando uscì Resident Evil 7 ero già nei ranghi di TGM e ricordo perfettamente l’accoglienza: il gioco era in prima persona, non c’erano zombie, dunque non era “un vero Resident Evil“. Ad anni di distanza, con questo Resident Evil Village, nulla sembra cambiato: oltre ad avere l’innominabile prima persona, questo capitolo è addirittura un gioco con una forte inclinazione action, cosa che lo rende diverso dai classici Resident Evil e, a parere di molti, fin troppo distante anche da Resident Evil 7. Dunque, anche questo non è un Resident Evil.
Paradossalmente, i capitoli più controversi, quinto e sesto in primis, ancora oggi risoltano i più venduti di tutti i tempi…
La tendenza di non attribuire più questa etichetta di originalità è esplosa con il
quarto capitolo, ultimo diretto da Mikami e ancora oggi uno dei veri e propri capolavori del franchise, terribilmente seminale anche a distanza di tantissimi anni. Personalmente sono tra quei appassionati che ripescano il gioco per una sorta di annuale run, nel mio caso ogni estate, alcune volte scoprendo piccoli dettagli dal valore inestimabile; allo stesso tempo, però, faccio parte della schiera di giocatori di
Resident Evil che accetta come il franchise, alla stregua di un
organismo che vuole e deve sopravvivere negli anni – metafora che quasi affianca il
Virus T e le sue trasformazioni – sia oggetto di mutazioni, cambi pelle o sostanza, un po’ come la famosa forma dell’acqua, con il liquido che resta immutato, variando la forma a seconda del contenitore in cui viene versato.
Ciò è successo in particolar modo con i
capitoli più controversi, quinto e sesto in primis, che racchiudono in modo lapalissiano la grande contraddizione di una parte rilevante dell’audience di
Resident Evil che ha urlato il suo odio e ripudio per quei due giochi, e così per la Capcom di allora, ma nei fatti ne ha determinato lo status di
capitoli della serie più venduti di tutti i tempi…
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