I generi videoludici e la loro definizione sono sempre argomento di fervente dibattito. Oggi mi interessa riflettere in particolare su una di queste definizioni: quella di gioco indie.
In teoria la risposta alla domanda “cos’è un indie” è facile: significa un videogioco che non si appoggia a nessun publisher e che dunque viene prodotto, pubblicizzato e pubblicato in completa autonomia da parte degli sviluppatori. Non ci vuole tanto però per rendersi conto che questa definizione, all’apparenza limpida e netta, non basta da sola a risolvere la faccenda. Insomma, c’è un motivo se a turno Riot Games, Valve, Blizzard e Bungie sono state di quando in quando definite, di fronte a critiche mosse nei confronti di bug o funzionalità assenti nei loro videogiochi, con l’accezione ironica “small indie company”, a suggerire di non essere troppo severi nei confronti di questa compagnia che fattura milioni di dollari al mese (sempre ironicamente eh, chiariamo che non si sa mai).
nessuno si azzarderebbe a definire la compagnia che controlla il più grande mercato digitale del mondo PC come “indipendente”
(NOT SO) SMALL INDIE COMPANY
Prendiamo altri due esempi meno estremi, ma che secondo me aiutano a capire meglio ciò che intendo dire. Il primo è Everspace 2, uscito due giorni fa e sviluppato e pubblicato dallo studio tedesco Rockfish Games, e il secondo è Baldur’s Gate 3, di Larian Studios. Entrambi gli studi non si appoggiano a un publisher; certo, Larian dispone di una licenza sull’universo di Dungeons & Dragons, ma come possiamo leggere in questo report per gli investitori di Hasbro, a pagina 22, quest’ultima non ha un coinvolgimento diretto nel finanziamento del gioco. Eppure entrambi i titoli non rientrano certo in quello che la maggior parte della gente pensa quando sente il termine “indie”. Se i valori di produzione dei due giochi non raggiungono quelli dei tripla A, di sicuro non vanno nemmeno tanto lontani; e anzi, sono valori di produzione ben più alti di certi giochi che invece il publisher ce l’hanno eccome. E questo si riflette anche nel prezzo a cui sono venduti, 49,99€ per Everspace 2 e 59,99€ per Baldur’s Gate 3, a fronte di una quantità attesa di copie vendute che si conta sicuramente in milioni di copie. Ha ancora senso considerarli giochi indie, metterli sullo stesso piano del progetto di un solo dev alle prime armi?
Il 5 aprile si è anche tenuta una diretta di ID@Xbox, il programma che Microsoft utilizza per promuovere titoli indie particolarmente interessanti. Qui troviamo produzioni più in linea, anche in termini di budget, con ciò che ci si aspetterebbe da un titolo che utilizza questa etichetta; The Last Case of Benedict Fox è quello che con tutta probabilità ha raccolto più interesse nel corso delle ultime settimane, ma credo valga la pena segnalare anche The Explorator, con il trailer che parte dando l’impressione di una fiabesca avventura per poi rivelarlo come lo sparatutto old school che è.
SEI DAVVERO INDIE QUANDO A PROMUOVERTI È UNA COMPAGNIA BILIONARIA?
Qualcuno, a una o a forse entrambe le domande che ho posto sopra, potrà decidere di rispondere “sì, sono comunque giochi indie”. Comprensibile, anche se la mia posizione è diversa. Prima di fare la figura del professorino che bacchetta la classe disattenta, chiarisco che l’intenzione di questo editoriale non è fornire delle linee guida che vanno imprescindibilmente rispettate pena non potersi accaparrare la definizione di indie, pesata e centellinata al millimetro.
in un mondo come quello dei videogiochi, i confini fra le etichette sono tutt’altro che ben definiti
Il mio approccio alla questione, comunque, è l’esatto opposto del prescrittivo: per me “indie is a vibe”, ed essendo una “vibe”, una sensazione, si basa su criteri completamente soggettivi e arbitrari. Se un gioco è in pixel art, c’è un’altissima probabilità che lo assegni a questa etichetta. Se ha la grafica 2D, anche, però occhio perché per esempio Metroid Dread è 2D. Se ha un prezzo sotto i dieci euro, se tratta temi narrativi lontani dal mainstream, se azzarda con le meccaniche di gioco, se a vista non sembra un gioco dal grande budget… insomma, avete capito; sono l’incubo vivente di chiunque creda nell’importanza di una tassonomia accurata. E per carità, mi rendo conto che il mio approccio “a sentimento” sia tutt’altro che privo di difetti, che in questo mio calderone vada a finire anche roba che magari meriterebbe di far alzare un sopracciglio o due.
PUBLISHER… DI GIOCHI INDIPENDENTI?
Perché se c’è una cosa su cui penso che tutti possano essere d’accordo, è che “gioco indie” evoca una sensazione di freschezza, di idee di sviluppo slegate da quelli che sono i dettami della grande industria, di giochi più vicini ai giocatori, dal punto di vista del business e delle storie che raccontano. Tutt’altro che paradossalmente, appropriarsi di questa etichetta, farsene patroni e mecenati, interessa molto anche i grandi attori del mercato. Abbiamo già parlato di Microsoft e del suo ID@Xbox, ma i nomi che più si sono impegnati in questo senso sono sicuramente Devolver Digital e Annapurna Interactive. Due publisher non enormi, sicuramente non al livello di Microsoft, ma allo stesso tempo non piccoli.
NON CONFONDIAMO L’IMMAGINE DI ANNAPURNA E DEVOLVER CON CIÒ CHE SONO IN REALTÀ
Il vero problema, però, è che così si finisce per lasciare la definizione di indie in mano ai publisher. E questo va a svantaggio di chi indipendente lo è e lo vuole essere per davvero, vuoi per controllo creativo o per poter dettare i propri tempi, che si trova a dover incorrere in confronti impari in un campo in cui già non è difficile svettare, non solo per qualità ma anche banalmente nella lotta a suon di gomitate virtuali per arrivare di fronte al giocatore. E il fatto che ai The Game Awards sia stato Stray, un titolo con un publisher e un accordo di pubblicazione console esclusivo con Sony, a vincere il titolo di Best Debut Indie di sicuro ha fatto riflettere alcuni sulla vapidità di certi award show, ma è anche un sintomo di ciò che sta succedendo al significato della parola “indie”.