I videogiochi sono cultura, e come tale vanno preservati

Quella dei videogiochi è un’industria da sempre proiettata verso il futuro, da sempre alla ricerca dell’innovazione tecnologica e di quella idea nuova capace di stupire tutti. Forse proprio questa tensione verso il futuro la ha però portata a trascurare quello che è il suo passato, come mostra un recente studio.

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Pubblicato pochi giorni fa dalla Video Game History Foundation, un’ente americana che si occupa proprio della preservazione videoludica, lo studio ha messo in evidenza come l’87% dei videogiochi pubblicati fra gli albori dell’industria e il 2009 (incluso) sia a rischio sparizione.

SIAMO A LIVELLI DI REPERIBILITÀ PARAGONABILI A QUELLI DEI FILM MUTI

Questo significa che – per quanto riguarda gli Stati Uniti – questa percentuale di videogiochi non è più commercialmente in circolazione, e dunque la sua reperibilità si limita a poche vie: il reperimento di copie e piattaforme di gioco di seconda mano, spesso difficili da trovare e per questo motivo vendute a caro prezzo; il ricorso ad archivi appositamente dedicati alla conservazione di queste copie, che però richiedono di recarsi fisicamente in sede per poter mettere mano al gioco in questione; o, caso limite, la pirateria. Una situazione, tanto per offrire un termine di paragone più concreto dei semplici numeri, che per quanto riguarda lo scenario americano mette i videogiochi sullo stesso piano delle registrazioni pre-Seconda Guerra Mondiale o dei film muti.

RICORDARE I VIDEOGIOCHI

Lo studio – che vi invito a leggere rimandandovi, nel caso preferiste l’italiano, al buon riassunto che ne fa il professor Francesco Toniolo – si addentra molto nel dettaglio nel discorso, spiegando come nonostante alcuni passi positivi siano stati compiuti sia dalle grandi case di publishing (Microsoft, Sony, Nintendo; certo, quando non chiudono gli store digitali più datati) che da realtà più piccole (Limited Run Games, Digital Eclipse), nel concreto queste pur lodevoli iniziative finiscono per essere una goccia nel mare dei giochi che, invece, diventano ogni giorno che passa più difficili da recuperare. Faccio un esempio banale, giusto per far capire la scala del problema, che non si limita certo solo a sconosciuti giochi dell’era 8-bit o precedenti: un gioco su cui ho speso un sacco di tempo quando andavo alle superiori è stato Soulcalibur III. Il picchiaduro di Bandai Namco, uscito nel 2006 su PS2, non è attualmente disponibile in altre edizioni per piattaforme moderne. Non è presente nemmeno sul catalogo dei classici del PlayStation Plus Premium.

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Ora, a me va anche bene perché ho ancora sia la mia PS2 che la mia copia del gioco, e in linea di massima se proprio le avessi perse o si fossero rovinate col tempo (possibilissimo: i supporti fisici e le console non sono immortali, e la dimostrazione è il fatto che la mia PS2 già quando era usata quotidianamente aveva deciso di smettere di leggere i giochi stampati su CD-ROM) potrei cavarmela con un giretto su Amazon e circa centocinquanta euro.

NON VA NEMMENO TRASCURATA LA QUESTIONE LICENZE

Ma Soulcalibur III è comunque un gioco famoso, e la PS2 una delle console più vendute della storia del gaming – tant’è che, a dieci anni dalla cessazione della produzione, la Video Game History Foundation ancora la considera un “active ecosystem”. Le cose diventano più difficili se andiamo indietro nel tempo, o se magari il gioco che ci interessa è sotto licenza: emblematico, per esempio, è il caso dello strategico The Lord of the Rings: Battle for Middle Earth 2, pubblicato da Electronic Arts nel 2006 e attualmente introvabile su canali ufficiali proprio per la fine, e il mancato rinnovo, dell’accordo di pubblicazione con Warner Bros.

LEGGI CHE TI PASSA

Un aspetto a cui si fa accenno all’interno dello studio è anche il Digital Millenium Copyright Act americano, lì visto come un ostacolo sia alla conservazione che all’accesso presso archivi e biblioteche. Potrà forse sembrare bizzarro vedere nominate anche le biblioteche ma, lungi dall’essere solo collezioni di polverosi libri, in particolare negli ultimi decenni queste hanno sempre fatto del loro meglio per restare al passo con i tempi, prima includendo nella loro offerta fumetti, musica e film (anche contemporanei, non necessariamente solo classici) e più di recente anche materiale digitale come ebook; d’altronde, lo stesso manifesto IFLA-UNESCO sottolinea come la biblioteca pubblica “si adatta continuamente ai nuovi mezzi di comunicazione.” Che le biblioteche inizino a guardare in maniera sempre più interessata anche ai videogiochi, data la loro sempre più fondamentale impronta culturale nel mondo odierno, è tutt’altro che strano.

VEDIAMO UN PO’ COSA DICE LA LEGGE ITALIANA SUL DIRITTO D’AUTORE

È interessante, visto che abbiamo citato la legislazione americana in merito, andare a vedere cosa dice la legge sul diritto d’autore italiana, cioè la legge 22 aprile 1941 n. 633. Di sicuro ve lo state chiedendo, quindi lo chiarisco subito: sì, è stata emanata durante il fascismo, ma da allora ha ricevuto numerosi aggiornamenti. Al suo interno, già dall’articolo 1 possiamo trovare citati i “programmi per elaboratore”, termine che include anche i videogiochi. Non li troviamo però citati nell’articolo 69, che riguarda esplicitamente il prestito bibliotecario, che “non è soggetto ad autorizzazione da parte del titolare del relativo diritto” – come altrimenti sancito, per quanto riguarda gli enti pubblici, dall’articolo 18-bis – ma solo per quanto riguarda opere a stampa e audiovisivi, per questi ultimi a patto che siano trascorsi 18 mesi dalla loro pubblicazione. Questo, in ogni caso, non ha impedito ad alcune biblioteche di creare vere e proprie “zone gaming” al loro interno, ma l’impressione da parte del sottoscritto (che non è certo un avvocato o un esperto di diritto d’autore) è che lo facciano muovendosi in una sorta di zona grigia.

Ed è un peccato, perché biblioteche e archivi sono elementi fondamentali della preservazione della cultura e sopratutto della sua diffusione, anche quand’essa non sia più commercialmente rilevante; specifico che non si vuole sminuire l’importantissimo e assolutamente lodevole operato di iniziative come ad esempio l’Elettroludica di Avezzano, ma la conservazione della cultura non può permettersi di passare solo per l’impegno, e l’investimento economico, di singoli privati o di loro associazioni.

LA PRESERVAZIONE DELLA CULTURA NON PUÒ AFFIDARSI SOLO ALL’INIZIATIVA DEI PRIVATI

Tornando alle biblioteche, personalmente ho perso il conto dei libri di cui, grazie proprio a loro e a servizi come il prestito interbibliotecario, ho potuto usufruire nonostante fossero da lungo tempo fuori commercio; poter accedere a servizi simili, supportati da una legislazione più chiara, anche per quanto riguarda i videogiochi è qualcosa di assolutamente auspicabile non solo per (legittimi) fini di svago o di curiosità personale. È già da tempo ormai che i videogiochi, proprio per la loro importanza sempre più endemica a livello culturale, attirano l’attenzione anche dei ricercatori; basti vedere, per citare qualche esempio italiano, l’importante lavoro fatto dal già citato Francesco Toniolo o da Matteo Bittanti nel cercare di portare verso un pubblico più ampio il punto di vista accademico sui videogiochi. Ma come si fa a fare ricerca quando quasi il 90% di un medium pur così giovane è a rischio di sparizione?

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