L'inestimabile patrimonio delle musiche dei videogiochi

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Un po’ di anni fa, quando si erano affacciati sul mercato i primi smartphone e si cominciava a personalizzare le suonerie, avevo messo per segnalare le notifiche l’incipit dei livelli di Pac-Man. Una roba fastisiosissima in pubblico, me ne rendo conto, ma a me non importava, perché era troppo più forte il piacere di sentirla ogni volta che ricevevo un SMS rispetto alla necessità di risultare discreto. Fu con un certo stupore che un giorno, in metropolitana, una signora un po’ attempata e seduta di fianco a me, udendo quel meraviglioso jingle, si girò e mi disse “oh che bello… ma questo è Pac-Man!”. Fu in quel preciso istante che intuii come anche il mondo dei videogiochi avesse la forza di contribuire al calderone collettivo della storia della musica. Oggigiorno sfido chiunque a fischiettare per strada il motivetto di Super Mario senza che la maggior parte degli astanti non lo riconoscano di primo acchito, e questo vale ormai per molte delle colonne sonore celebri, anche in virtù del fatto che il medium ha “fatto breccia” e che l’età media dei videogiocatori è estremamente più alta rispetto anche solo a un paio di lustri or sono.

Brani come le title track degli ultimi tre The Elder Scrolls (dio, o chi per lui, benedica Jeremy Soule), come alcuni pezzi del maestro Nobuo Uematsu (sia toccato anche lui dalla sacra luce, soprattutto per il giorno in cui ha partorito To Zanarkand), come Magical Sound Shower (chi non l’ha mai sentita in sala giochi peste lo colga) o come la spassosissima Still Alive, che chiudeva le vicende di Portal (addirittura oggetto di un coro scolastico americano), vanno culturalmente considerate alla stessa stregua dei capolavori di musica classica o di quei brani diventati parte del DNA della razza umana. Se il riff di Whole Lotta Love è stato paragonato da molti all’incipit della Quinta Sinfonia di Beethoven significa che ormai la musica rock è stata “sdoganata” e accettata universalmente come espressione artistica a tutto tondo, affrancata finalmente dalle etichette infamanti che negli anni 60 e 70 (ma anche 80) gli erano state appiccicate addosso da una certa parte di umanità “benpensante”.


Le musiche dei videogiochi sono un patrimonio culturale

Per lo stesso motivo, è solo questione di tempo prima che il videogioco, nell’interezza della sua forma espressiva, concluda lo stesso percorso: si tratta solo di attendere che il mondo trovi un nuovo demonio verso il quale puntare il dito. Quando accadrà, chiunque potrà far suo, senza troppe seghe mentali a tarparne la voglia, il piacere dell’ascolto non solo dei jingle più famosi, ma anche di tutte le piccole perle nascoste che galleggiano nel mare magnum delle OST. Certi artisti del passato (tipo il compianto Richie Havens, autore del brano Tex’s Lament per The Pandora Directive) ci avevano visto lungo, e sono pronto a scommettere che nei prossimi anni più di qualche grande nome non mancherà di saltare sul carro, con tutto il beneficio che ne conseguirà nella diffusione e nell’accettazione dei videogiochi come patrimonio culturale. Sperando che non si tratti di Gigi d’Alessio o Justin Bibier, s’intende, altrimenti poi verrà difficile difendere il fortino.

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