Di ritorno da un press tour, quando sono sull’aereo che puntualmente fa tardi, mi ritrovo a pensare che le robe più interessanti del nostro mestiere spesso sono quelle che non finiscono direttamente nelle anteprime, o sono prigioniere di embarghi molte volte sacrosanti, altre volte meno, del tipo che se sei in un bel posto e non puoi scriverlo da nessuna parte, anche in maniera non relativa al gioco, secondo me una parte dell’effetto della location sparisce.
Ma non è di marketing e di scelte dei publisher che voglio parlare, o meglio, non è tanto il discorso di cosa sia sotto embargo o cosa no, ma di come a volte questi viaggi si trasformino troppo spesso in articoli che relativamente a come va l’esperienza dicono poco. Da un lato lo comprendo, siamo stampa specializzata, e ciò che conta è parlare del titolo in questione con il giusto distacco da contesto e situazioni: è il nostro lavoro, e nessuno dice il contrario. Il punto è che forse, tutti quanti noi ci prendiamo un po’ troppo sul serio nel farlo, e abbiamo “educato” i lettori ad aspettarsi esattamente questo: il resoconto pratico, essenziale e rigoroso di quanto visto su schermo. È il coverage classico degli eventi, quello che anche i publisher si aspettano ed è uno dei cardini del nostro lavoro, perché diventiamo le uniche voci che possono parlare con cognizione di causa di qualcosa che deve ancora uscire. Giusto così, e ci mancherebbe. Il punto è che gli eventi sono anche un modo per relazionarsi con le persone che sono dietro i giochi e con gli altri colleghi, di altre testate e di altre nazioni, che fanno il tuo stesso lavoro e che, in alcuni casi, finisci per vedere soltanto durante i press tour. Ecco, la cosa bella degli eventi stampa è che molto spesso sono zone franche, scevri da forme di competitività editoriale e dove si sviluppa una naturale propensione alla discussione, al confronto e all’approfondimento, almeno quando c’è tempo a sufficienza per sedersi e bersi un caffè. È vero, molte di queste discussioni poi vengono rielaborate e finiscono negli articoli che ognuno di noi si porta a casa, certo, ma è il racconto che ci perdiamo di strada.
È come se il concetto di costume, nel nostro settore, avesse una dignità minore rispetto al pezzo d’opinione
Sarà che sono io che mi perdo piacevolmente in chiacchiere, ma da lettore storico delle riviste di settore, uno dei motivi per cui ho sempre amato TGM è stato quello dell’aneddotica spicciola, del perdersi nel racconto di ciò che avviene oltre il sipario. È un po’ quello che facciamo con le pillole redazionali o durante le fiere, d’altronde, ed è sempre quello che mi porto a casa con più piacere. Però secondo me, un po’ tutti noi, vuoi per questione di abitudine, vuoi per questione di tempi e di paletti, utilizziamo troppo poco spesso la formula del racconto per riportare ciò che accade mentre lavoriamo. Soprattutto, finiamo per tirarla fuori dal kit dello scrittore (o adesso, del giornalista televisivo de noantri) quasi esclusivamente con funzione di intrattenimento e, invece, molto meno, dal punto di vista puramente di approfondimento o informativo, come se inconsciamente avessimo paura di inficiare il classico rituale dei pezzi canonici. È come se il concetto di costume, nel nostro settore, avesse una dignità minore rispetto al pezzo d’opinione e le due cose non potessero mai collimare o contribuire a comunicare meglio gli elementi più culturali o puramente umani di quello che succede, o di quello che incontriamo. Il mio è semplicemente un dubbio da chi, oltre che scrivere, è uno che legge tanto, a prescindere dal logo sulla pagina. A questo punto, da lettore a lettore, vi chiedo: sono io che c’ho gusti ed esigenze diverse, o anche a voi farebbe piacere leggere articoli di costume correlati a quello che ci accade intorno?
P.S. Ma perchè mettono il veto sulla location??
P.S. Ma perchè mettono il veto sulla location??
Credo che la scelta sia fatta perché se l'embargo è a lungo termine e il luogo scelto ha qualche attinenza al titolo in questione ci potrebbe essere qualche dettaglio di troppo.