Tutto inizia sui tetti di una città di vetro che calore non ha. Guardi in basso, e immediatamente sai che non devi farlo: il suolo ti spaventa, non per vile paura di cadere, ma perché sei conscia di non appartenere a quel piano di realtà. Prima di alzare nuovamente lo sguardo, hai giusto il tempo di scorgere affusolate, avveniristiche scarpe da ginnastica, la punta biforcuta come fossi una geisha contemporanea. Inizi a correre e a saltare, mentre i tetti, le condutture e le asettiche pareti diventano una sfocatura indistinta; con mosse precise crei “il flusso” e diventi puro e semplice movimento.
Il parkour, in Mirror’s Edge, è estetica e poetica della libertà, e niente sarà più lo stesso: troppi titoli, difatti, vincolano l’avatar al “pian terreno” limitandone severamente i movimenti; qui, invece, fluisci da un tetto all’altro come se non ci fosse un domani. Poi qualcosa si “rompe”. Forse la colpa è di una caduta, che ti riporta al checkpoint precedente, o di un elemento architettonico che, fugacemente, ha attirato la tua attenzione. E allora ti fermi a guardare, contempli “quel Cielo di Lombardia, così bello quand’è bello” (A. Manzoni), scruti pensierosa teloni di cerata mossi in maniera randomica dagli aliti di un vento capriccioso, studi i riflessi del sole su un cartellone della pubblicità o sul logo rotante di un’azienda, conti le ciocche nella capigliatura impomatata di Celeste, oppure osservi la scia di un aereo altissimo e lontano.
cammina, dunque, non correre, ché certe esperienze non ritornano più
“Soffro” quando sento pronunciare frasi del tipo: «Ho completato Mass Effect 2 in 20 ore». Possibile, o giocatore irrequieto, che non ti sia soffermato ad enumerare i tatuaggi sulla pelle di Jack? Che non abbia ammirato le “decalcomanie” presenti sullo scafo della Normandy? Oppure che non ti sia immerso (pun intended!), per svariate decine di minuti, nella bellezza decadente di Rapture, fra una sparatoria e la successiva? Cammina, dunque, non correre, ché certe esperienze non ritornano più.