Press play on tape

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In questi giorni, come ogni tanto mi accade, so testando un PC gaming portatile di cui vi parlerò tra un po’, dopo averlo strizzato per bene con il solito The Witcher 3 e altri bei giochini. Quello dei desktop replacement è un settore in grandissima espansione, non solo dal punto di vista commerciale, ma anche prestazionale: le pur esistenti differenze tra un PC fisso e un notebook si stanno sempre più assottigliando, tanto che anche uno abbastanza esigente come me può giocare senza problemi a qualunque cosa, a patto di avere soldi in più da spendere per puntare ai prodotti migliori. Tra le cose che apprezzo di più ultimamente, anche in ambito desktop, va annoverata senza dubbio la venuta di supporti ultraveloci per lo storage dei dati: un disco PCI-e M.2 SSD consente di caricare un sistema operativo nel tempo di uno sbadiglio, per non parlare dei videogiochi, che all’occorrenza ha senso ospitare proprio sul disco più veloce del sistema, lasciando al secondario il compito di fare da spazio di allocazione per dati meno importanti o per i titoli che in quel momento non si stanno giocando.

Smanettandoci sopra un PC siffatto mi è venuto naturale pensare a come le cose siano cambiate vertiginosamente rispetto a quando, da fanciullo, decisi che il mio hobby dovesse essere quello dei videogiochi e cominciai a tampinare mia madre affinché mi regalasse un Commodore VIC-20 per Natale. Chi ha vissuto quegli anni sul fronte console può dirsi fortunato, perché una cartuccia consentiva di accendere il sistema, attendere qualche secondo e poi via… si era già pronti a lasciarsi inondare il cuore di pixel e musica a 8 bit prima e 16 bit poi. Io, che nella vita riesco a imboccare sempre la via impervia, ho percorso tutta d’un fiato l’infilata VIC-20/C-64/Amiga/PC, recuperando solo a casa di amici o in “vecchiaia” le cose perse su altri versanti. Se chiudo gli occhi e penso a quel periodo, la primissima cosa che mi sovviene alla mente è la schermata di caricamento del Commodore 64 e il tempo speso a guardare il contagiri del lettore a cassette. Erano tempi in cui stavi minuti interi a osservare quei numeri mentre ruotavano, sperando che – arrivati in fondo – qualcosa non andasse storto. Nel caso, si riavviava tutto, si digitava LOAD, si aspettava la scritta PRESS PLAY ON TAPE e si cominciava a pregare: non ho mai fatto uso di droghe nella vita, ma suppongo che sostanze come l’LSD non diano sensazioni distanti da quelle causate dalla schermata di caricamento del C-64, che gettava nelle pupille ipnotismo a getto continuo, senza nemmeno la grazia di avvertire chi soffrisse di epilessia.

Eppure lo si faceva, così come si alternavano ripetutamente i quindici floppy di Beneath a Steel Sky su Amiga, col craaa-craaa della testina che a ogni inserimento sembrava dovesse mandare – da lì a poco – un settore del disco a donnine di facili costumi. Non pesava. Era così e basta. L’attesa riempiva la barra della super, da spendere poi tutta d’un fiato a caricamento avvenuto, così da aumentare il piacere dei momenti in cui – finalmente! – si giocava.

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Come abbiamo potuto perdere in così malo modo la dimensione del nostro tempo?

Quando racconto queste cose ai miei figli, mi guardano come se fossi matto. Per loro è una scocciatura insopportabile dover attendere i secondi che servono per accedere uno smartphone. Il loro mondo è da sempre stato quello frenetico e senza fiato cui noi quarantacinquenni ci siamo adeguati solo crescendo, poco alla volta; la cosa triste sta proprio nel fatto che anche noi adulti abbiamo ormai perso la pazienza per molte cose. Come ho scritto poco sopra, poter accedere alla schermata iniziale di The Witcher 3 nel giro di un batter di ciglia mi fa godere non poco; in cima alle cose che ho mal sopportato di Sniper Ghost Warrior 3 ci sono i tre minuti e quaranta secondi necessari al caricamento quando si passa da una zona all’altra; se lancio un Assalto di Destiny, assieme ai miei amici del Team Crimine, la schermata di transizione con le astronavi fluttuanti sarebbe meno sopportabile senza la possibilità di fare due chiacchiere preparatorie con gli altri membri del party.

Come abbiamo potuto perdere in così malo modo la dimensione del nostro tempo? Perché, in gioventù, caricamenti di svariati minuti (col rischio di dover provare e riprovare, prima di giocare davvero) si vivevano senza problemi, mentre oggi, a prescindere dall’attività che stiamo svolgendo, non riusciamo a sopportare più di qualche secondo di attesa? Quel limbo tra l’intenzione e il giocare lo bruciamo pensando alla noia che stiamo provando, anziché investirlo in un bacio alla moglie, in un messaggio di buona notte alla mamma o in una carezza ai figli che già dormono. Oppure – semplicemente – chiudendo gli occhi, prendendo fiato e godendo delle cose belle della giornata appena trascorsa. Ogni tanto, ne converrete, farebbe bene tirare il fiato e pensare un po’ allo scorrere placido della vita, anche durante una misera e interminabile schermata di caricamento.

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