Domanda secca. Come vi comportate, una volta che ritornate in vita, dopo essere stati uccisi per l’ennesima volta dallo stesso soggetto in un videogioco? La domanda può sembrare banale, ma sotto sotto non lo è, e anzi – a mio avviso – nasconde un ventaglio comportamentale di varia umanità che è sfizioso analizzare.
Per quanto mi riguarda, devo distinguere il mio approccio alla questione tra offline e online. Se sto affrontando un gioco impegnativo per i fatti miei e continuo a crepare di continuo nello stesso posto (come mi è capitato di recente, affrontando uno degli ultimi boss di Dark Souls 3 o qualche combattimento particolarmente ostico di Divinity: Original Sin 2), stacco un attimo, faccio altro e poi tento di modificare approccio. Di base, il pensiero sta nel comprendere i miei limiti, intuire se posso limarli con insistenza sulla medesima strategia o, invece, trovare una nuova chiave di lettura con cui affrontare il problema da una prospettiva differente. In generale, sono situazioni che mi stimolano, a patto che il titolo in questione non sia volutamente punitivo in modo ingiusto. In quest’ultimo caso, se sto giocando per diletto e non per lavoro, dopo un po’ di tentativi desisto e passo ad altro, ché tanto il backlog è talmente lungo e variegato da consentirmi di mettere la nefasta esperienza nello scantinato del cervello che ospita le cose da dimenticare in fretta.
Ciò che distingue un nemico controllato dalla CPU da uno umano è solo l’imprevedibilità del secondo
Dal punto di vista meramente logico, non ha alcun senso che io abbia un modo diverso di affrontare un momento di difficoltà in un videogioco, a seconda che sia offline o online. Ciò che distingue un nemico controllato dalla CPU da uno umano è solo l’imprevedibilità del secondo: un fattore che non dovrebbe in alcuna maniera modificare il modo in cui il sangue porta ossigeno al cervello. Eppure – almeno nel mio caso – succede, senza che io mi possa rendere conto del perché. La parziale spiegazione (ovvia, certamente) è che lo spirito di competizione insito nell’animo umano si fa più incontrollabile quando la sfida non è contro se stessi e si ha di fronte un avversario in carne ed ossa; eppure, non riesco lo stesso a farmela bastare. C’è qualcosa di più che arde sotto la brace: un evidente meccanismo psicologico che mi sfugge, di cui intuisco la presenza ma non ne riesco a decifrare il codice. Sarà per questo che, quasi paradossalmente, mi rilassano di più i giochi che prevedono il permadeath, come Playerunknown’s Battlegrounds? Ditemi che non sono matto e che è così anche per voi, per favore.