Evitando spoiler consistenti, potrei così riassumere la main quest di The Witcher 2: Assassins of Kings: un super cattivo ipertrofico entra in scena, e “grazie” a Geralt che – per ragioni di trama – si muove al rallentatore riesce a compiere un atto di una crudeltà efferata, quindi salta fuori portata. Inizia così un inseguimento che dura per tutto il gioco; c’è anche uno scontro, circa a metà avventura, che però si risolve con la fuga dell’infame, perché insomma è il boss finale, e quindi non è ancora giunto il momento di sconfiggerlo. Dopo varie peripezie, il nostro eroe riesce a confrontarsi con la sua nemesi, ascolta lo spiegone finale e lo batte in un duello tesissimo. Ci sarebbe ben altro da dire, ma “questa è un’altra storia”, conclusione canonica che andava bene ai tempi del primo Conan; oggi, in quanto abusata, tende a causarmi fastidi vari (ulcera, emicrania,…). Davvero, è tutto qui. Ora che ci penso, al netto di alcuni dettagli, questa è anche la main quest del primo The Witcher! Confrontare per credere. Gli assassini di re hanno talmente poco peso nell’economia di gioco che il secondo colossal di CD Projekt RED avrebbe tranquillamente potuto chiamarsi The Witcher 2: L’eliminazione del Kayran e la maledizione di Sabrina Glevissig.
Similmente, le main quest di alcuni celebri giochi, se analizzate obbiettivamente, si rivelano di una pochezza disarmante. Il primo Fallout ci chiede di recuperare un chip per la purificazione dell’acqua, perché le menti rinchiuse nel Vault non sono in grado di produrne un altro o di riparare quello attualmente in uso (davvero? Gli stessi dev – Interplay, già capitanati dal carismatico Brian Fargo – si sono resi conto di ciò, e nel secondo titolo post-apocalittico da loro realizzato fanno menzione di una scatola zeppa di chip consegnata per sbaglio ad un altro Vault). Fallout 3 di Bethesda ci coinvolge, ancora una volta, in una missione che ha a che fare con la purificazione dell’acqua, e incidentalmente con il ritrovamento di nostro padre. Quasi tutti i giochi di BioWare ci chiedono di rinvenire le tracce di un’antica civiltà che si è risvegliata e minaccia il Thedas/l’Antica Cina/la Galassia lontana lontana, e di recuperare i frammenti di una mappa o reliquia. Oblivion, ultimo ma non ultimo, esige che noi si chiuda buona parte dei portali dell’omonima dimensione infernale, una noia che – se possibile – vi consiglio di evitare, concentrandovi piuttosto sulle bellissime missioni di gilda.
la bontà di un GdR è sovente determinata da altri fattori, rispetto alla missione principale
Va detto che la main quest del primo Fallout muta “presto” in qualcos’altro di più interessante, e che è retta dal fattore d’urgenza (i famosi 150 giorni di tempo, prima che il Vault esaurisca la riserva d’acqua), ma in definitiva, per trovare qualcosa d’eccezionale, occorre sempre citare i soliti… anzi, il solito noto: parlo, ovviamente, di quel Planescape: Torment che è riuscito a cucire la main quest intorno alle vicende del nosto personaggio, il Nameless One, presentando una serie di eventi che quasi mai (Curst, forse, è un tantino superflua) si discostano dal fil rouge, una storia che usa sapientemente il fattore amnesia come pernio della narrazione.
Per dire, tutte le missioni alla società dei Sensati sono indispensabili per meglio comprendere la NOSTRA storia, laddove nel secondo atto di The Witcher 2 è di scena il recupero delle sacre reliquie (ben cinque, non potevano essere una di meno, chiaramente!), con il gioco che dà per assunto che Geralt non sia in grado di trovare le tracce dei suoi nemici senza l’aiuto di lascivi sovrani, pomposi diplomatici e lunghe rievocazioni belliche (dov’è finita, a tal proposito, la famosa neutralità dei Witcher di cui – alla bisogna – potevamo fare sfoggio durante il primo titolo?). Ma questi sono tutti i danni fatti da Il Trono di Spade (un’altra storia, in definitiva!), di cui parlerò magari in un prossimo editoriale.