Il digital delivery e quello che fu il nostro diritto di proprietà

digital delivery editoriale

In un autunno caratterizzato da cronache di scandali sessuali che coinvolgono famose celebrità e leggi elettorali capaci di scaldare gli animi anche dei migliori qualunquisti, una notizia più frivola ha attirato la mia attenzione. Ne ha scritto il nostro Daniele Dolce qui, riportando quanto affermato da Destructoid in merito al fatto che l’edizione fisica di Cuphead in arrivo nei negozi non conterrà il disco di gioco. Nel mare magnum delle news, questa ha scatenato le invettive di molti lettori su Facebook, che hanno espresso pareri piuttosto critici nei confronti dell’operazione di Microsoft, per quanto – grazie alla funzione Play Anywhere – sarà possibile sfruttare il codice acquistato e sfruttato via digital delivery sia su Xbox One, sia su PC dotati di Windows 10. Poco dopo, una seconda notizia sembrava fare il verso alla prima: da un report di GameIndustry si evince che oltre il 45% dei titoli tripla A su console viene acquistato in versione digitale, peraltro confermando il dato di Activision sull’equilibrio tra i due formati nella vendita di Destiny 2 in questi due mesi di finestra dalla sua pubblicazione.

Chi segue gli editoriali di TGM si ricorderà, poi, di un paio di articoli firmati Tassani (qui e qui) in cui venivano elencati tutti i benefici del digital delivery, che spaziano dal costo inferiore, grazie ai tanti sconti periodici su tutti gli store, all’ingombro nullo che facilita traslochi ed evita l’accumularsi di polvere, passando per la possibilità di avere sempre tutto il proprio backlog a portata di mouse o pad. Potremmo anche aggiungere che questo tipo di mercato, sempre più accessibile da un punto di vista tanto economico quanto di banda larga, disincentiva la pirateria nè più nè meno di quanto hanno fatto iTunes e Netflix nei rispettivi settori di competenza. Insomma: se mettiamo da parte la nostalgia di un tempo in cui avevamo in bell’ordine, sullo scaffale della cameretta, tutte le coste dei box dei tanti titoli comprati nel negozio sotto casa, la possibilità di collegare i nostri account Steam, PSN o Marketplace a un profilo PayPal e scaricare qualsivoglia videogioco via digital delivery con un semplice click sembra essere una manna piovuta dal cielo di Gabe Newell, che per primo intuì la portata di questo fenomeno. Eppure, parafrasando Galileo Galilei e De Andrè, qualcosa dentro di me si muove in direzione ostinata e contraria (Smisurata preghiera, 1996).

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Come utente mi sento defraudato perché non sono libero di rivendere o prestare ciò che compro

Prima di leggere commenti del tipo “siete vecchi”, “che depressione” o “commento solo il titolo perché l’articolo non l’ho letto”, ci tengo a precisare che acquisto regolarmente nei servizi di digital delivery, le mie librerie esplodono di “giocherò” e Dio benedica l’internet. Ciò premesso, come utente mi sento defraudato perché non sono libero di rivendere o prestare il gioco in questione, come ho sempre fatto fin da bambino. Io compravo Super Mario Bros. 3, il mio compagno di banco Punch-Out!!, e dopo un paio di settimane ce li si scambiava. Ho sempre fatto così, negli anni, compreso il periodo PS3 e Xbox 360. Su PC questo metodo ha iniziato a scricchiolare molto prima, ma i saldi stemperavano la necessità di munirsi per forza due licenze diverse. Oggi sento questo vincolo molto più stringente.

Giusto ieri un caro amico è venuto a trovarmi e se anche avevo fatto mia la Legendary Edition di Blood Bowl 2 in sconto sul PSN, più che fargli vedere le razze che lui non aveva ancora comprato non ho potuto fare. Lo so che, oggi come oggi, ciò che pago è la licenza d’uso e non il prodotto in sè e per sè, ma trovo comunque insopportabile che io non possa farne ciò che voglio. Di mezzo ci sono discorsi come la pirateria, il sell out decisamente superiore, i minori costi di produzione, le patch, i season pass, l’always-on e la competizione tra major su chi ha la vetrina digitale più accattivante, ma io sono solo un giocatore che vuole fare del proprio acquisto ciò che vuole. Comprai Ni no Kuni su PS3 e dopo alcune ore mi accorsi che il gameplay non era nelle mie corde. Un tempo avrei pensato: “Dai… lo rivendo subito, ché l’ho preso a prezzo pieno e magari recupero quasi tutto”. Allora fui costretto al solo “disintalla” per tenermelo in libreria vita natural durante… che poi, chi lo sa se davvero sarà così? Metti caso che tra dieci anni mi venisse voglia di riprenderlo in mano e la mia PS3 non fosse più funzionante? Ho un Game Gear in vendita su eBay con i condensatori rotti, e il mio Wonder Boy: The Dragon’s Trap non ci girerà mai più, ma sono stato io a scegliere di tenerlo nell’armadio e di non venderlo prima che venisse a mancare l’handled dedicato. Potrò dire la stessa cosa quando, tra qualche lustro, il mio Nintendo 3DS smetterà di accendersi e dovrò dire addio a tutte le IP scaricate legalmente – e a prezzo pieno – sulla sua SD?

Noi non ci stiamo ancora rendendo bene conto, ma tra vent’anni il collezionismo e il retrogaming saranno ancora fermi a prodotti di inizio duemila, con buona pace di chi ha conservato tutto al riparo della polvere e si troverà a pregare che chi gestisce gli odierni servizi di digital delivery (Sony, Valve e Microsoft, ma non solo) non facciano la fine di Atari, Commodore, SEGA e Neo-Geo. Io mi sto già toccando dove non batte il sole. E voi?

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