Prende il via Facce da TGM – L’Opinione, uno spazio dedicato alle “columns” di The Games Machine: articoli e visioni su argomenti caldi o fortemente dibattuti che animano le discussioni, anche molto dure, all’interno della redazione di TGM, talvolta con posizioni – davvero o solo in apparenza – antitetiche. L’obiettivo è dar voce ai nostri redattori come specchio del quadro complesso e articolato, talvolta persino controverso, che circonda il mondo dei videogiochi, all’interno di confini dettati da etica e buon gusto ma senza depotenziare il messaggio e, così, la ricerca di confronto su temi caldi e delicati. Buona lettura!
Mario “Second Variety” Baccigalupi
Gli acquisti in app sono la normalità, delle mance o dei sistemi predatori? Ecco, voglio raccontarvi un episodio increscioso che mi è capitato qualche anno fa. Mi trovavo al concerto di uno dei miei gruppi preferiti, del quale possiedo tutt’ora l’intera discografia in CD, quando con mio grande disappunto scoprì che avrebbero interpretato gli stessi brani che già avevo in digitale. Stavo pagando per ascoltare dei pezzi già acquistati. Ma non è tutto: la maglietta dell’evento, venduta al prezzo di una fontana nel deserto, altro non era che una comunissima t-shirt nera con una foto della band stampata grossolanamente. Indossarla non mi avrebbe reso più intonato, più abile con la chitarra o più carismatico. Il disegno che campeggiava sul mio petto altro non era che un mero accessorio estetico.
Alle mie rimostranze, mi fu risposto che è così che funziona ai concerti. Da sempre. Del resto, quando si afferma di amare la musica, bisogna anche supportarla in qualche modo. Seguire i propri beniamini in tour o comprare merchansiding ufficiale sono alcune delle strade percorribili. O magari ci si può rifiutare di essere un ingranaggio di questa macchina, ma se tutti si comportassero in questo modo, dopo due o tre date deserte, le band semplicemente smetterebbero di organizzare tournée. Perché? Perché non sarebbe più economicamente conveniente.
DUE PESI, DUE MISURE
Qualcuno potrebbe chiedersi il nesso tra le mie disavventure musicali ed i videogame. Proviamo a vederla in questo modo: la discografia della band è la copia, fisica o digitale, del nostro videogioco preferito. L’abbiamo comprato, dunque è nostro. Il concerto è il season pass. Lo stesso gioco, in un contesto speciale. Che si paga a parte. La maglietta è la in app purchase. Non serve a nulla, ma in qualche modo completa l’esperienza. Parliamo di vacanze? Il gioco è il pacchetto all inclusive alle Maldive, il season pass è la gita in catamarano non inclusa nel prezzo, e le microtransazioni trovano forma nell’acquisto di stupidi magneti raffiguranti stelle marine da attaccare sul frigo di casa.
Questo principio teoricamente si può applicare in ogni contesto. Ma guai quando semplicissime logiche di mercato entrano nel mondo del gaming. Microtransazioni, shop virtuali in cui fare la spesa pagando con valuta reale, Season Pass, Battle Pass, Quellochevolete Pass, contenuti aggiuntivi a pagamento e modalità varie di chiedere ulteriori somme di denaro una volta già acquistato il gioco vengono visti come fumo negli occhi. Non sono ancora molti i videogame AAA che adottano questa strategia di monetizzazione, ma è innegabile che il fenomeno sia in aumento, generando preoccupazione in una parte del pubblico che paga senza fiatare l’aggiunta di una miserabile spruzzata di ketchup stantio sulla porzione di patate fritte ma si scandalizza per una skin premium. Che, vale la pena ricordare, nessuno viene obbligato ad acquistare. Se ne rimane lì, discreta, in un angolino dello schermo, mandandoti qualche reminder di tanto in tanto.
¡VIDEOJUEGOS O MUERTE!
Esiste dunque una corrente di pensiero, che molti abbracciano ma pochi sottoscrivono pubblicamente, secondo la quale videogiocare sarebbe un diritto inalienabile, pari a quello alla salute, per cui è accettabile sborsare giusto qualche soldarellino per divertirsi pad alla mano, ma senza esagerare. Superato un certo limite, stabilito non si capisce bene da chi, chiedere soldi per valorizzare il proprio lavoro diventa un mefistofelico raggiro predatorio e va condannato, radendo al suolo la software house e cospargendo di sale le rovine, affinché non cresca più nemmeno uno stelo d’erba. La realtà è che non sempre chi propone acquisti in app è un vampiro, e non sempre chi non abbraccia questa strategia di vendita è un santo. Ma soprattutto, non sta a noi impicciarci del modo in cui un’azienda vuole recuperare il proprio investimento.
Ci sono figure professionali preposte a ciò, e che probabilmente hanno maggior competenza in materia del videogiocatore medio che sbraita. Mettere il becco nelle politiche economiche di imprese private ci catapulterebbe in una sorta di socialismo videoludico, in cui tu produci, noi decidiamo quanto pagarti, e qualora il modello non fosse sostenibile, la colpa è tua e ti arrangi. Non sfigurerebbe dunque nell’isola di Yara in Far Cry 6 un cartellone con scritto “Videojuegos o Muerte”. E ovviamente ti controlliamo, sappiamo che nei tuoi hard disk c’è già un DLC che vorresti farci pagare in seguito, quando saremo ormai dipendenti dal gameplay. Non ci provare nemmeno.
BREAKING NEWS: SVILUPPARE VIDEOGIOCHI COSTA
Ma perché mai gli sviluppatori si starebbero orientando sempre più verso acquisti in app, microtransazioni, pass battaglia, e altre forme di pagamenti extra? Inutile girare intorno alla domanda: per guadagnare di più. E semplificando la questione, tutti questi profitti andranno a finire in tre macro categorie: nuova villa con piscina degli investitori, tasse, e sviluppo di nuovi videogiochi per alimentare il circolo virtuoso. Se fai parte delle persone secondo le quali il CEO di un’azienda quotata al Nasdaq dovrebbe comunque avere il tenore di vita di un comune mortale, sei libero di roderti il fegato per il suo nuovo elicottero. La questione tasse, in un mondo perfetto in cui tutti le pagano come si deve, è molto importante, perché significa che una parte del soldi destinati all’acquisto del mio Pass Battaglia di Fortnite finisce a favore del bene pubblico, magari per costruire ospedali, riparare strade, aiutare i più sfortunati. Ma da schifoso egoista quale sono, è la terza opzione a interessarmi maggiormente: una software house prospera è una software house propensa a investire in nuovi progetti. Alcuni mi piaceranno, altri no, ma alimenterà l’ecosistema videoludico.
Ricordiamo che Call of Duty: Modern Warfare 2, classe 2009, è costato la bellezza di 250 milioni di dollari, tra sviluppo e marketing, e difficilmente avrebbe reso felici gli investitori se fosse andato in attivo solo di qualche migliaio di euro, considerato il capitale impegnato. In altre parole significa che o il gioco avrebbe riempito le casse di soldi esattamente come il deposito di Paperon de Paperoni, o il futuro del brand di CoD sarebbe stato a rischio. È una serie che non ti interessa? Molto bene, ignorala e amici come prima. Ci giocherelli, ma niente più? Divertiti finché dura, tanto gli store sono pieni di titoli di ogni tipo. Ti ha appassionato al punto da farti sorprendere dall’alba per l’ennesima volta? Direi che una strisciatina di carta di credito ci starebbe tutta, a questo punto.
TUTTE LE SFUMATURE DEGLI ACQUISTI IN APP
Anzi, voglio vederla esattamente in questo modo: il tip per la cianfrusaglia virtuale potrebbe essere una forma di ringraziamento per l’esperienza che abbiamo vissuto in chissà quale mondo fantastico. Che abbiamo pagato, certo, allo stesso modo in cui paghiamo al ristorante, ma se siamo soddisfatti del servizio non esistiamo a lasciare una mancia al cameriere, che magari non vedeva l’ora che ci levassimo dai piedi perché era stanco e voleva solamente andare a casa. Quindi perché non ringraziare Riot Games per Legends of Runeterra, che mi appassiona da tre anni, acquistando un po’ di valuta per gli acquisti in game utilizzando denaro reale? È il mio modo di dire “ottimo lavoro, ragazzi. Continuate così”. Dove starebbe il problema se in un gioco come Diablo Immortal, che mi ha regalato una ventina abbondanti di ore di divertimento, mi ha fatto comprare un season pass? A conti fatti, mi è costato meno di 50 centesimi all’ora.
Con Fortnite, sul quale ho trascorso centinaia di ore in coop con mia figlia, al costo di circa 15 euro al mese tra pass e qualche ammennicolo estetico, sarò in debito perenne. È immorale perché ci sono persone che hanno speso una fortuna a Diablo Immortal? Bene, vuol dire che se lo potevano permettere e lo ritenevano adeguato, e più cinicamente hanno probabilmente finanziato e motivato parte dello sviluppo di Diablo IV.
PORTOGHESI DEL GAMING
Ma da dove nasce tutto questo astio verso le strategie di monetizzazione? Da appassionato di videogame, e ora anche in veste di critico, me lo sono chiesto spesso. E sono giunto a due distinte conclusioni. La prima è un amore cieco per il medium, lo stesso per cui ogni scarrafone è bell’ ‘a mamma soja, come cantava Pino Daniele, che con somma ingenuità non accetta che alla fine le software house siano imprese, esattamente come lo è il supermercato sotto casa. E lo scopo principale di ogni impresa, prima ancora della soddisfazione del cliente, è la sopravvivenza, e possibilmente la prosperità. E poi ci sono loro. I portoghesi del gaming. Videoscrocconi dediti al free to play che trascorrono ore ed ore in compagnia dei loro giochi preferiti lasciando poi magari recensioni negative negli store più o meno con questo tenore: “molto divertente e ben realizzato, meriterebbe ciqnue stelline però ci sono troppe pubblicità, quindi ne darò solo una”. Poco importa la presenza del pulsante dall’enigmatica scritta “Remove Ads”, poiché se provi a premerlo ti propone – fellone! – un acquisto in app di 1.99 euro, e scusate ma qui proprio non ci siamo, “free” c’era scritto, e “free” deve essere. E va bene, ma se un gioco, cito, “molto divertente e ben realizzato” non merita a tuo avviso il costo di un tramezzino, almeno guardati un po’ di pubblicità su criptovalute e paccottiglia finanziaria.
Mi sembra il minimo. Invece no. Sembrano esseri riesumati dagli anni bui della pirateria, quando era normale pagare poche lire all’edicolante per una compilation di 30 giochi, o in seguito fondere il disk drive dell’Amiga a suon di copie con X-Copy, e infine a masterizzarsi l’ultima raccolta Twilight, e se compravi un gioco a prezzo pieno finivi bullizzato. Sentire gente lamentarsi dei loot box, dimentichi di aver dilapidato la pensione della nonna in figurine di calciatori mi fa sorridere. I videogame sono una bellissima forma d’arte e la nostra più grande passione, trattiamoli come si deve, considerando che dietro a ogni pixel c’è il sudore di lavoratori e una buona dose di stress degli investitori. Se un gioco ti piace, e lo prevede, non dovrebbe essere un problema spendere per un piccolo extra. O almeno non scandalizzarsi quando viene gentilmente proposto un acquisto non necessario. Accade ovunque.