Perché non ci piacciono più i videogiochi – L'Opinione

Perché non piacciono più i videogiochi? Eppure, il metroidvania sta vivendo i suoi anni di massimo splendore. Sono tornati i punta-e-clicca a la Lucas Art, i platform 3D collect-a-thon, Nintendo sta addirittura tirando fuori quello che sembra a tutti gli effetti Super Mario Bros. 4 sotto mentite spoglie. E allora perché ci preoccupiamo ancora di poter perdere generi e attitudini nei videogiochi?

È incredibile come un medium fondamentalmente incapace di preservare sé stesso sia riuscito a recuperare interi generi nel giro di un paio di generazioni. Da una parte ci sono le Konami e le Square Enix che distruggono i sorgenti dei loro classici (per fare spazio sui server? Per tutelare il segreto industriale? Non lo sapremo mai) e si trovano a pubblicare, per esempio, una HD remastered di Silent Hill 2 senza la nebbia che lo ha reso… beh, Silent Hill 2. Dall’altra invece c’è la scena più o meno indie, dove anche se ti chiami Yacht Club Games e non di certo Capcom puoi permetterti di ritirare fuori idee e stilemi delle epoche NES e SNES partorendo quel brillante incrocio tra Ducktales e Mega Man.

Oggi sul mercato si trova di tutto

Oggi sul mercato si trova di tutto: l’offerta più agée non è più limitata a collection e raccolte nostalgiche, c’è tantissimo spazio anche per opere retro inspired che suonano come cover musicali dei titoli del passato. Qualcuno addirittura prova a svecchiare e reinventare i classici, pensa per esempio a come Hyper Light Drifter (o Tunic, o Unsighted…) reimmaginino il canone settato dai capitoli classici di Zelda. Insomma, dal punto di vista dell’offerta non c’è mai stato un periodo migliore di questo per giocare. E allora perché siamo sempre così dannatamente insoddisfatti?

RETURN TO NOSTALGIA, ESCAPE FROM MONKEY ISLAND

Dopo aver lavorato a The Cave con Double Fine nel 2013 di Ron Gilbert si erano sostanzialmente perse le tracce. Di più, sembrava proprio completamente sparito quel modo di fare avventure grafiche, soppiantato quasi in toto dagli Interactive Drama ad alto budget di David Cage o dall’approccio episodico della prima Telltale Games. Nel 2017 però esce finalmente Thimbleweed Park (apparso la prima volta su Kickstarter sulla fine del 2014), che per tantissimi versi è il ritorno di Ron Gilbert a quella che è la sua zona di comfort.

Thimbleweed Park è a tutti gli effetti quella che poco fa definivo cover – in senso musicale. È un’opera che si rifà al Ron Gilbert anni ‘90

È improprio definire “pixel art” la veste grafica dei classici Lucas Art (che era a tutti gli effetti la computer-grafica dell’epoca), ma viene identificata come tale da tantissimi appassionati e la scelta di realizzare in quel modo Thimbleweed Park non è casuale. Thimbleweed Park è a tutti gli effetti quella che poco fa definivo cover – in senso musicale. È un’opera che si rifà al Ron Gilbert anni ‘90 di Maniac Mansion e Monkey Island, riproponendone l’umorismo e i nonsensi ignorando deliberatamente che alla fine sono stati proprio quei nonsensi a confinare i punta-e-clicca in una nicchia scomparsa per tantissimi anni. Thimbleweed Park soprattutto funziona: ha funzionato su Kickstarter, dove ha raccolto quasi 400mila dollari, e funziona sugli store digitali riuscendo ad arrivare su praticamente tutte le macchine da gioco contemporanee (e guadagnandosi anche una release fisica firmata Limited Run Games). Funziona così bene che è qui che forse nasce l’idea di fare un passo oltre la cover musicale e rimettere insieme la band, o quantomeno pubblicare un sequel del suo ultimo album. Si prova e si riesce a tornare a Monkey Island. E iniziano i problemi.

Return to Monkey Island genera immediatamente due reazioni opposte. Da una parte è la realizzazione di un sogno lungo più di vent’anni, la possibilità finalmente di vedere il Monkey Island 3 di Gilbert e scoprire finalmente il segreto – cosa di cui post-release s’è parlato sorprendentemente poco, vista la lucidità con cui Gilbert ha affrontato la cosa. Dall’altra però la direzione artistica proprio non piace. Il grande pubblico dei nostalgici vorrebbe qualcosa più vicino a quello che Gilbert aveva lasciato in Lucas Art, quasi a volerlo costringere in quella zona in cui Thimbleweed Park aveva preso residenza e il suo pubblico con lui. Quando questo non succede si passa alle minacce di morte, perché semplicemente l’idea di un nuovo Monkey Island non basta: vogliamo un nuovo vecchio Monkey Island, perché il metadone e le cover musicali non ci bastano più. Poco importa appunto quello che Return to Monkey Island vuole dire, ha da dire. Non vogliamo ascoltare.

I LOVE THE POWER GLOVE. IT’S SO BAD

Si potrebbero fare centinaia di esempi come questo. Parlare degli anni passati a giocare ogni metroidvania il mercato proponesse pur di tener vivo il genere, salvo poi non riuscire a concepire l’idea di un nuovo Metroid (Metroid, la serie che ha dato metà del nome al genere) venduto a prezzo pieno. Negli ultimi 10 anni abbiamo assistito dalle prime file allo spettacolo dove prima Demon’s e poi Dark Souls rimettevano al centro del loro design il flavor dei primi Zelda e l’attitudine hardcore dei videogiochi che ci hanno cresciuto, ma non appena abbiamo realizzato i passi in avanti fatti da Elden Ring per arrivare alle masse abbiamo reagito come se qualcuno fosse entrato in casa nostra evocando la legittima difesa davanti ai changelog delle patch.

Ci siamo indignati ogni qualvolta un videogioco provava a essere più “video” che “gioco”, cercando di affrontare tematiche cui non siamo stati abituati ai nostri albori, almeno, qua in occidente

Ci siamo indignati ogni qualvolta un videogioco provava a essere più “video” che “gioco”, cercando di affrontare tematiche cui non siamo stati abituati ai nostri albori (almeno, qua in occidente, in Giappone è un’altra storia), nonostante questa non rappresenti certo la maggior parte dell’offerta su PlayStation Store e eShop. Il problema è proprio questo, forse: non ci interessa nemmeno “giocare e basta”, vogliamo che tutto quello che il mercato offre si rivolga espressamente a noi e rispetti i canoni del videogioco con cui siamo cresciuti, siano passati 10, 20 o anche più anni. Non riusciamo ad essere semplicemente contenti del fatto che nel 2023 esista ancora una scena di game-dev su Commodore 64 (su cui, ricordo, è costruita una parte importante di RetroTGM dell’attuale The Games Machine cartacea, ndMario), ma pretendiamo che tutta la produzione di oggi si rifaccia a quegli approcci perché altrimenti è troppo facile/poco divertente/non è davvero videogioco.

Perché non piacciono più i videogiochi?

Sembra che i videogiochi non ci piacciano più. Non ci interessa che quelle che riteniamo essere le nostre necessità vengano esaudite dal mercato in tempi sempre più celeri e a costi spesso e volentieri sempre più bassi, visto la frequenza con cui Steam e gli altri platform holder organizzano sconti e offerte. L’idea che esista qualcosa – qualunque cosa – che abbia l’ardire di non essere fatta a immagine somiglianza dei nostri gusti sembra aver rovinato per sempre qualunque velleità di intrattenimento del medium, figurarsi le pretese di essere arte, cultura o politica. Guardando il dibattito attorno al videogioco a volte ho la sensazione che Dante avesse torto, e che alla fine forse siamo davvero fatti a viver come Bruti. Dopotutto, preferiamo rimpiangere il commercio sulla Via della Seta, piuttosto che varcare le nostre personali Colonne d’Ercole e correre il rischio di affondare in mezzo all’oceano pur continuare a commerciare con i popoli dall’altra parte del mare.

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