Della genesi di Father and Son ne abbiamo parlato a gennaio, in occasione della sua presentazione napoletana, per cui mi limito a dire che si tratta di un gioco commissionato e prodotto dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli e si configura come uno dei primi esempi in cui la promozione di un ente museale avviene attraverso una parabola totalmente narrativa, che, in questo caso, prova a calarsi profondamente nel territorio e nella sua tradizione.
La formula scelta, in un’operazione produttivamente intelligente che mi piace definire in stile Telltale, è stata quella di recuperare lo scheletro di The End of the World (un’avventura narrativa, ambientata in un apocalittico futuro in quel di Newcastle), il cui fulcro – dal punto di vista del racconto – è la dinamica della sovrapposizione di storyline avvenute in momenti storici diversi, ma nello stesso luogo. Un ideale viaggio nel tempo che viene riproposto anche in questo caso, e che ovviamente si presta tantissimo a esplorare la ricchissima storia di Napoli e dintorni, sfruttando le opere custodite dal MANN come testimonianze fisiche e trait d’union del racconto. Il pretesto narrativo, a dire il vero un po’ forzato rispetto allo svolgimento della vicenda, è il rapporto perduto tra un padre e un figlio, il primo troppo dedito al suo lavoro di archeologo presso il MANN per dedicare il giusto tempo alla famiglia, e il secondo cresciuto lontano da Napoli, un ragazzo che non ha mai capito le scelte del genitore. Il gioco ci mette nei panni di Micheal che, alla morte del padre, decide di recarsi nella città campana: la ricerca delle risposte coincide con un viaggio di scoperta e riscoperta, il cui esito dipende parzialmente dal modo in cui decidiamo di viverla.
UNA NAPOLI BELLA MA MUTA
Al timone artistico di Father and Son c’è proprio Sean Wenham che ha dato vita a The End of the World. Da napoletano qual sono, la cosa che mi ha impressionato di più è stata la sua capacità di illustrare Napoli attraverso i suoi vicoli, i suoi scorci, i suoi colori e, soprattutto, la sua luce. L’impatto visivo del gioco è splendido e le tavole realizzate a mano dall’artista britannico costituiscono una delle migliori rappresentazioni del capoluogo partenopeo nella storia dei media di intrattenimento.
Father and Son suggerisce tantissime tematiche nella sua ora di gameplay, e forse la sua colpa più grande è quella di non approfondirne nessuna
Se l’intera impalcatura narrativa nel complesso funziona, a rovinare un po’ la sospensione di incredulità ci pensano i dialoghi, che amplificano quel senso di superficialità dato dalle troppe tematiche trattate (in così poco tempo). Sinceramente non so se il gioco sia stato scritto in italiano o in inglese, ma la sensazione è quella di un titolo tradotto in maniera pressapochista e con poca attenzione all’adattamento culturale. Ad esempio, inserire la locuzione “Museo Archeologico Nazionale di Napoli”, per intero, nei dialoghi, è praticamente uccidere il senso di realtà, e farlo più di una volta è uno spot piazzato male. Capisco benissimo la natura promozionale dell’opera ma “andare al museo” oppure “andare al MANN” funzionavano lo stesso e non avrebbero creato straniamento. Contemporaneamente, l’uso della lingua è quasi distratto e fin troppo didascalico, ben lungi dalla ricerca e ricostruzione culturale svolta da Santa Ragione per il suo Wheels of Aurelia, per citare un altro gioco che ha provato (ed è riuscito) a raccontare in maniera efficace la nostra penisola. Lo strano paradosso di Father and Son è che le due anime straniere del team di sviluppo, ovvero Wenham e Arkadiusz Reikowski (autore delle splendide musiche) siano riuscite a interpretare molto meglio dei componenti italiani lo spirito di Napoli, il che, se vogliamo, è anche un’interpretazione culturalmente interessante del rapporto che abbiamo con la nostra patria.
ISTITUZIONALIZZAZIONE VIDEOLUDICA
Scrittura a parte, Father and Son riesce nell’intento di legare l’istituzione al territorio e proporre un’avventura piacevole, destinata soprattutto a chi, di videogiochi, non ne mastica in continuazione. Il sistema di controllo semplice, la narrazione lineare ma con diversi snodi che possono portare a finali differenti e, soprattutto, una tematica principale empaticamente efficace riescono a rendere il titolo sviluppato da TuoMuseo l’archetipo dell’app da consigliare a parenti e amici per dimostrare il valore culturale del videogioco. Il fatto di essere giocabile su mobile ed essere gratuito, poi, non lascia spazio a nessuna scusa: Father and Son va giocato e, nonostante le sue criticità, è un meraviglioso spot ai videogiochi e un buon esempio di dialogo tra istituzioni e medium.
Father and Son è un meraviglioso spot ai videogiochi e un buon esempio di dialogo tra istituzioni e medium
Father and Son è sia un gioiellino di sensibilità e senso artistico, sia una parziale occasione mancata. Analizzato dal punto di vista della funzione istituzionale e produttivo, infatti, è un’operazione mirabile che spero verrà ripetuta al più presto, capace com’è di coniugare in maniera virtuosa videogioco e operazione di marketing. Dal punto di vista di analisi dell’opera ludica in sé, invece, è un peccato che una cornice estetica meravigliosa e un soggetto più che valido siano stati parzialmente compromessi da una scrittura un po’ sciatta e da poca attenzione linguistica nei dialoghi. Poi certo, il gioco funziona, riesce comunque a emozionare e offre un’oretta di piacevole intrattenimento, quindi bene così.