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Visualizza Versione Completa : Calcio moderno, favorevoli o contrari?



Geralt di Rivia
14-09-16, 09:11
Appartengo alla generazione che si ostina a chiamare la Champions «Coppa dei Campioni». Quelli come me sono dei provinciali che considerano ancora il calcio una questione di tifo morboso per la squadra della propria terra. Ma siamo un residuato del Novecento, ne ho avuto la prova sabato scorso. Mi trovavo al festival di Camogli e alle due meno cinque del pomeriggio ho visto scattare all’unisono relatori, scrittori e intellettuali insospettabili, tutti alla ricerca spasmodica di un televisore acceso sul derby di Manchester, City contro United. Tra loro non c’era neanche un inglese. Né, che io sappia, un residente a Manchester, città dal fascino assai discutibile. Arrivo a supporre che, se avessi messo una cartina della Gran Bretagna davanti ai loro nasi, quasi nessuno avrebbe saputo indicarmi l’esatta collocazione di Manchester. Eppure i destini delle due squadre di quella entità in fondo onirica chiamata «Manchester» erano in cima ai loro pensieri. Così mi sono ritrovato da solo, con lo smartphone connesso sul sito de «La Stampa», a leggere il resoconto dell’allenamento del Toro, impegnato il giorno dopo a Bergamo in una partita di cui - la verità non mi era mai apparsa così chiara come in quel momento - erano a conoscenza soltanto i tifosi stretti delle due squadre interessate.

Il telecalcio ha annullato le distanze. Oggi ci sono bambini italiani che delirano per i campioni del Barcellona e del Chelsea, ne indossano le magliette e ne seguono le gesta in tv, senza averli mai toccati e forse neppure visti una volta dal vivo.

Conoscono a memoria la formazione del Real Madrid, ma se chiedete loro chi è l’allenatore dell’Udinese resteranno perplessi. Ora che ci penso, anch’io. La trasformazione genetica dei tifosi è già avvenuta. Non rimane che adeguarvi i format televisivi, pardon i campionati, creando la Nba del calcio europeo, così da avere ogni settimana Juve-Ajax e Inter-Atletico anziché Juve-Chievo e Inter-Empoli. Gli ultimi a opporre resistenza sono i grandi club inglesi, affezionati alla Premier League, ma la valanga di soldi che la Nba europea è in grado di generare finirà per sedurre anche loro. Già adesso la Coppa dei Campioni - pardon, la Champions - attira più interessi dei campionati nazionali, che squadre come Juve e Bayern vincono a mani basse da tempo immemore per manifesta superiorità economica e organizzativa.

Se il calcio («la più importante tra le cose meno importanti», Arrigo Sacchi) è anche storia del costume, stiamo assistendo a una svolta profonda. Ho un amico di Alba che, da ragazzino, il sabato andava a vedere le partite dell’Albese in serie C e la domenica tifava Toro in Serie A. Suo figlio riproporrà lo schema, solo su scala più vasta: tiferà Toro in ciò che resterà del campionato italiano, mentre in tv si affezionerà a una squadra della lega europea. Tutti avremo (avranno) una squadra «local» e una «global». Si tratterà di una forma di tifo diversa, slegata dal campanile di appartenenza, meno ossessiva e immutabile. Nel vecchio calcio la squadra della vita era quella di cui ti innamoravi da piccolo e che spesso aveva la sede nella tua regione o addirittura nella tua città, ed era proprio questo particolare a favorire l’identificazione. Non so se un ragazzino italiano innamorato del Manchester United gli resterà fedele fino alla morte, oppure se alla terza sconfitta consecutiva passerà al City. Il video e il web creano rapporti meno intimi e profondi del contatto diretto e dell’appartenenza geografica. Ma ai padroni del pallone la mobilità del tifo non preoccupa: fa parte delle logiche di mercato. Hanno apparecchiato una ventina di marchi tra i quali l’immensa platea televisiva potrà scegliere di volta in volta quello per cui fare la ola. In cambio lo spettatore riceverà ogni settimana dieci spettacoli di qualità recitati dagli attori più dotati, mentre i brocchi verranno relegati nei campionati nazionali, il cui livello sarà ancora più scadente di quello attuale, già scadentissimo, così da indurre gli ultimi nostalgici a sottoscrivere l’abbonamento televisivo alla lega europea.

Resta sullo sfondo il problema di che cosa fare di quelli come me, che non tifano per uno dei venti superclub e sono troppo stagionati per tradire l’antica fede o semplicemente per affiancargliene una nuova. Noi che il derby di Manchester finiamo per guardarlo, ma come se fosse un film di effetti speciali - con l’occhio della meraviglia, non con quello della passione - e infatti dopo un po’ ci annoiamo e cambiamo canale. Quando il Progresso ci asfalterà, verremo classificati alla voce «danni marginali». E ci ritroveremo sugli spalti semivuoti di Toro-Genoa e Palermo-Fiorentina con lo stesso spirito di quei collezionisti di auto d’epoca che sfilano per le strade, incuranti e persino orgogliosi della propria marginalità.

Angels
14-09-16, 09:14
Fonte?

Geralt di Rivia
14-09-16, 09:25
I gruppi ultras contestano lo strapotere dei soldi nel calcio e la mercificazione. Ma il calcio ipertrofico di oggi nasce proprio nel passato comunemente mitizzato.

Di Roberto Procaccini

Uno dei feticci della lotta al “calcio moderno” è l’orario dei turni di campionato. Nei cori delle tifoserie d’Italia si reclama la partita «la domenica alle tre», in opposizione al campionato “spezzatino”, cioè quello spalmato su due o più giorni del weekend per ragioni televisive. È solo uno slogan, una rivendicazione dal valore più simbolico che pratico. Ma poggia su un presupposto falso. Le 15 non sono mai state l’orario per eccellenza delle partite. Dagli anni Trenta ai primi anni Novanta, quando i match si disputavano in contemporanea, il fischio d’inizio oscillava tra le 14:30 e le 16:30, a seconda della stagione. Il turno domenicale è fissato alle 15 solo nel nuovo millennio, quando il posticipo della domenica sera è ormai consuetudinario e si introducono a favor di tubo catodico gli anticipi al sabato.

Non solo il calendario. I gruppi ultras dello Stivale avversano ogni tratto distintivo del football odierno, globale e finanziario. In primis le pay tv, proprio perché incarnazione della perdita di valori del pallone, poi i calciatori esosi, i biglietti cari e le regole sulla sicurezza negli stadi. È una lotta dal retroterra nostalgico e passatista. La premessa è che negli anni Novanta l’effetto congiunto della legge Bosman e dei miliardi immessi nel circuito prima da Tele+, poi da Stream, infine da Sky e Mediaset, abbia stravolto uno sport fin lì popolare. Dove c’erano bandiere, valori e passioni, ora ci sono mercenari, interessi economici e spietatezza. Non è un sentimento circoscritto nelle curve, ma coinvolge, con più sfumature e meno antagonismo, una parte significativa del tifo italiano. Tutto molto romantico, ma per niente vero. Una bufala.

«Lo spaesamento dei tifosi è comprensibile quando i vertici del calcio mondiale sono toccati da scandali come quello che coinvolge Blatter e Platini. Ma bisogna capire che il problema non sono i soldi nel calcio, bensì l’uso che se ne fa». Nicola De Ianni, docente di Storia Economica della Federico II, ha da poco dato alle stampe per Rubbettino Editore Il calcio Italiano 1898-1981. Economia e potere. Se qualcuno nutre l’idea che nel passato del movimento calcistico nostrano il denaro non fosse un argomento centrale, sbaglia. Aumentare il giro d’affari delle squadre di massima serie è stato un obiettivo perseguito con costanza e determinazione. Da sempre e da tutti i dirigenti del nostro calcio.

Si inizia negli anni Venti. Con la Carta di Viareggio il calcio da sport nominalmente dilettantesco si trasforma in professionistico. Nasce un calciomercato dalle plusvalenze dai valori molto inferiori rispetto a quelli odierni, ma simili in termini percentuali. Nello stesso decennio, quando i biglietti staccati al botteghino rappresentano l’unica fonte di incassi per i club, si promuove la costruzione di nuovi stadi, più grandi e più capienti. Dragare soldi dal ticketing significa fare cassa con la disponibilità dei tifosi. Il tariffario per i biglietti dei Mondiali del 1934 è stabilito perché la manifestazione chiuda in pari anche a fronte di una prematura eliminazione della Nazionale azzurra (che invece vincerà). Tra il 1951 e il 1961, ricostruisce De Ianni, le presenze negli impianti italiani crescono del 40 per cento, mentre i proventi dal botteghino del 136 per cento. Il trend è continuo. Nel 1961 gli incassi della biglietteria valgono 5,4 miliardi di lire, dieci anni dopo 12,9.

Nell’Italia del boom economico anche il calcio detona. Il prof federiciano rilegge la documentazione disponibile (i lacunosi rendiconti economici delle associazioni sportive e poi i bilanci quando i club trasformano in società per azioni) e definisce la parabola di un settore economico in progressiva espansione. I valori di produzione della Serie A passano dai 3,37 miliardi del 1951 a 7,95 del 1961. Money, money, money. È del 1946 l’istituzione del Totocalcio, gioco d’azzardo ideato proprio per trovare una nuova fonte di profitti per il calcio italiano. Un lustro più tardi, lo strumento porterà circa 1 miliardo di lire l’anno nelle casse dei club di Serie A, mentre la ripartizione dei proventi generati dalle scommesse sarà poi al centro di battaglie tra Figc, Coni e governo. Così come sarà una guerra ogni rinnovo con la Rai per la concessione dei diritti tv.

Pauperismo un corno. Eppure, mentre il calcio si trasforma in un’industria, c’è una cosa che gli italiani non si stufano di fare: moralismo. Per tutto il Novecento si avversa il professionismo, poi si borbotta per il prezzo dei biglietti e quindi si teme l’influenza della televisione pubblica e di Stato. «L’ambiente del calcio, dirigenza e stampa inclusi», scrive De Ianni, «erano condizionati da una visione ristretta e da una mentalità ancorata a luoghi comuni spesso sbagliati. Alla fine quasi tutto era riconducibile al diabolico denaro ritenuto responsabile della dannazione del calcio, il quale veniva ingiustamente privato della purezza paradisiaca del dilettantismo. In questa crociata di valori cattolici, anche i marxisti si trovano a loro agio, ben rassicurati dall’analisi marxista leninista dell’avidità capitalista».

Tornando ai giorni nostri, il paradosso è che, mentre l’attuale sentimento passatista idealizza gli anni Ottanta come ultimo decennio franco e onesto del pallone, De Ianni termina proprio al 1981 la sua analisi. L’introduzione di sponsor e marketing, ultima mossa per ingrandire il bacino economico dei club prima dell’arrivo delle tv private, permette al calcio di moltiplicare il proprio fatturato e evolversi in sport ad alto contenuto finanziario. Insomma, l’ultima isola felice dei “no al calcio moderno” è, al contrario, l’origine del male che combattono.

Oltretutto bisognerebbe pure intendersi su quanto mercato e denaro siano nemici del pubblico che popola i nostri stadi. Dino Numerato, sociologo dell’università ceca della West Bohemia, in un articolo pubblicato su Journal of Sports and Social Issues vede nell’antimodernismo delle curve una sorta di baluardo contro l’espansione delle dinamiche neoliberiste nel calcio. I tifosi applicano la categoria della riflessività, ovvero la possibilità di comprendere la propria posizione nel mondo, cogliendo le opportunità di trasformazione per intervenire su ciò che non piace. Gli ultras italiani rivolgono, allora, la propria capacità di opposizione verso «la sfera della finanza, delle corporation, dei mass media, delle federazioni sportive, delle dirigenze dei club e del governo» e chissà, si chiede Numerato, se superando la conflittualità interna non possano diventare motore di cambiamento sociale. Ci sono, però, delle incognite. Il movimento ultras può diventare autoreferenziale, continua Numerato, ed accontentarsi dell’estetizzazione del proprio antagonismo: il compiacimento per una coreografia contro il calcio moderno può sostituire la pratica fattiva di lotta. Per di più gli stessi tifosi possono finire invischiati nelle logiche commerciali che osteggiano. Mentre in Italia il dibattito sul tifo è appiattito sulla criminalizzazione del movimento, le esperienze europee di coinvolgimento dei gruppi organizzati nella vita dei club dimostrano che esiste il rischio che gli ultras siano «cooptati nelle strategie neoliberiste» delle dirigenze sportive, continua Numerato, così come tentatrice è «l’attrattività commerciale della cultura protestataria». Traslitterando: messi alla prova, i tifosi hanno dato dimostrazione di non provare poi tanta repulsione verso la logica del profitto. Non il massimo per chi rimprovera ai calciatori di subordinare i sentimenti al portafogli.

La verità è che richiedere coerenza dall’antimodernismo non è possibile. È un sentimento che va interpretato in due modi. «Per gli ultras rientra nella politica del conflitto», spiega Luca Bifulco, sociologo dello Sport della Federico II. «Il calcio moderno è quello che vuole gli stadi più ricchi e più ordinati, e per questo respinge le parti popolari e violente del pubblico. I gruppi organizzati non si percepiscono come un problema dello sport, al contrario esaltano la centralità della propria passione e la continuità del proprio sostegno. Per questo reagiscono all’idea di essere esclusi dalla contesa». Ne consegue che gli ultras hanno chiara la propria identità, ma non necessariamente altrettanto definita consapevolezza politica. «Fatte alcune eccezioni, non sono marxisti per formazione» continua Bifulco. «Osteggiano la commercializzazione del calcio, ma organizzano il loro merchandising e aprono negozi dedicati per l’abbigliamento curvaiolo, ad esempio». Per gli altri, poi, per i tifosi non militanti, l’antimodernismo è semplicemente «un proustiano ritorno al passato, nostalgia per stagioni che appaiono innocue e rassicuranti solo perché appartenenti ad altre epoche». Malgrado i travisamenti e le sovrainterpretazioni, Bifulco non esclude che l’antimodernismo possa avere effetti positivi: «Il tifo calcistico si basa anche su mitologie. L’esistenza di un passato dai più alti valori etici è uno di questi miti».

tomlovin
14-09-16, 09:25
La trasformazione genetica dei tifosi è già avvenuta. Non rimane che adeguarvi i format televisivi, pardon i campionati, creando la Nba del calcio europeo, così da avere ogni settimana Juve-Ajax e Inter-Atletico anziché Juve-Chievo e Inter-Empoli. Gli ultimi a opporre resistenza sono i grandi club inglesi, affezionati alla Premier League, ma la valanga di soldi che la Nba europea è in grado di generare finirà per sedurre anche loro.
Falso.
La premier genera più incassi della CL.


Non so se un ragazzino italiano innamorato del Manchester United gli resterà fedele fino alla morte, oppure se alla terza sconfitta consecutiva passerà al City. Il video e il web creano rapporti meno intimi e profondi del contatto diretto e dell’appartenenza geografica.
Mah.
L'autore (Ormezzano, per caso?) crede che tutti i tifosi della Juve o dell'Inter abbiano visto la Juve o l'Inter dal vivo?
Specialmente i ragazzini?
Eppure di cambiar squadra non se ne parla, quella è e quella rimane fino alla morte...


Ma ai padroni del pallone la mobilità del tifo non preoccupa: fa parte delle logiche di mercato. Hanno apparecchiato una ventina di marchi tra i quali l’immensa platea televisiva potrà scegliere di volta in volta quello per cui fare la ola. In cambio lo spettatore riceverà ogni settimana dieci spettacoli di qualità recitati dagli attori più dotati, mentre i brocchi verranno relegati nei campionati nazionali, il cui livello sarà ancora più scadente di quello attuale, già scadentissimo, così da indurre gli ultimi nostalgici a sottoscrivere l’abbonamento televisivo alla lega europea.

Resta sullo sfondo il problema di che cosa fare di quelli come me, che non tifano per uno dei venti superclub e sono troppo stagionati per tradire l’antica fede o semplicemente per affiancargliene una nuova. Noi che il derby di Manchester finiamo per guardarlo, ma come se fosse un film di effetti speciali - con l’occhio della meraviglia, non con quello della passione - e infatti dopo un po’ ci annoiamo e cambiamo canale. Quando il Progresso ci asfalterà, verremo classificati alla voce «danni marginali». E ci ritroveremo sugli spalti semivuoti di Toro-Genoa e Palermo-Fiorentina con lo stesso spirito di quei collezionisti di auto d’epoca che sfilano per le strade, incuranti e persino orgogliosi della propria marginalità.
Un fazzoletto, presto!

Sbonk
14-09-16, 10:19
A me sembra che sti articoli partano sempre da un presupposto sbagliato, cioè che la globalizzazione e la commercializzazione siano due fenomeni legati solo al calcio e soprattutto reversibili, cosa che non sono. La famiglia di un mio amico ha una falegnameria da varie generazioni: mentre 40 anni fa facevano le credenze per le sciure, oggi vanno a Dubai a fare i lavori di pregio a sceicchi e riccastri vari. L'alternativa? Chiudere.
Persino le grandi e ricchissime leghe americane come NBA ed NFL cercano di aprire nuovi mercati all'estero, sarebbe un po' ingenuo pensare di potersi sottrarre al processo con la nostra misera serie A, visto che gli stadi semivuoti sono già realtà.

tomlovin
14-09-16, 10:25
Stessa idea.
Pensare di rimanere fuori dalla globalizzazione è un po' come pensare di non obbedire alla legge di gravità: come dovresti fare :asd: ?

Cioè, l'alternativa esiste pure... ma significa ridursi in miseria.

pity
14-09-16, 14:51
Sono discorsi di una banalità sorprendente, di chi fondamentalmente non ha mai vissuto la passione per il calcio ma solo il tifo per la propria squadra (e l'odio o l'invidia per le rivali).

Ad un appassionato di calcio non può che far piacere avere la possibilità di vedere una partita avvincente di un campionato estero. Sono un tifoso del Napoli ma sono un appassionato di calcio e se posso cerco di vedere il meglio che c'è in giro, perché mi piace.
Qualche stagione fa era una delizia poter guardare il derby di Liverpool, quando da una parte c'era Suarez e dall'altra una squadra che viaggiava sull'onda dell'entusiasmo con un buon gioco e diversi giocatori interessanti. O magari potersi gustare qualche clasico, al plurale perché includo pure quelli argentini.

Devono farsene una ragione, gli ultras e quelli nostalgici come loro. Una volta potevano autoproclamarsi massimi esperti di calcio, oggi risaltano come dei tifosi ossessionati dalla loro squadra ma quasi sempre all'oscuro di quel che accade oltre il proprio stadio.

Anche a me manca la Coppa dei Campioni ma inteso come format in cui si sfidano soltanto i vincitori dei campionati, e il resto delle squadre forti si contende un'altra coppa competitiva. Non per questo però mi sento superiore ad un ragazzino che aspetta di vedere il Barça in tv mentre vince l'ennesima Champions.

Jehan
14-09-16, 16:13
A me sembra che sti articoli partano sempre da un presupposto sbagliato, cioè che la globalizzazione e la commercializzazione siano due fenomeni legati solo al calcio e soprattutto reversibili, cosa che non sono. La famiglia di un mio amico ha una falegnameria da varie generazioni: mentre 40 anni fa facevano le credenze per le sciure, oggi vanno a Dubai a fare i lavori di pregio a sceicchi e riccastri vari. L'alternativa? Chiudere.
Persino le grandi e ricchissime leghe americane come NBA ed NFL cercano di aprire nuovi mercati all'estero, sarebbe un po' ingenuo pensare di potersi sottrarre al processo con la nostra misera serie A, visto che gli stadi semivuoti sono già realtà.

la globalizzazione é un fenomeno che dipende da presupposti precisi. Senza quei presupposti regredisce. Pure la 'prima globalizzazione' degli Imperi coloniali ottocenteschi pareva irreversibile, poi due guerre mondiali (o la 'Guerra Civile Europea') generate dagli stessi presupposti economici dell'epoca, accoppiate a un ventennio di rivoluzioni comuniste, hanno letteralmente levato mezzo mondo agli appetiti europei (difficilmente i cinesi di Mao avrebbero comprato tutti una rondella a testa, come speravano gli aspiranti spartitori dell'Impero di Mezzo il secolo prima).

A loro volta pure le rivoluzioni comuniste parevano irreversibili, e invece non lo erano affatto. La storia non procede sempre in maniera lineare come pensavano i positivisti.

Detto questo, il calcio é un'industria, e come tutti i settori economici delle economie capitaliste é sempre sensibile alle crisi di sovrapproduzione (o guadagni marginali decrescenti, se vogliamo). Non mi aspetto che avvenga fra dieci o vent'anni, ma prima o poi 'la gente si stuferà del calcio', probabilmente.

Sbonk
14-09-16, 17:14
la globalizzazione é un fenomeno che dipende da presupposti precisi. Senza quei presupposti regredisce. Pure la 'prima globalizzazione' degli Imperi coloniali ottocenteschi pareva irreversibile, poi due guerre mondiali (o la 'Guerra Civile Europea') generate dagli stessi presupposti economici dell'epoca, accoppiate a un ventennio di rivoluzioni comuniste, hanno letteralmente levato mezzo mondo agli appetiti europei (difficilmente i cinesi di Mao avrebbero comprato tutti una rondella a testa, come speravano gli aspiranti spartitori dell'Impero di Mezzo il secolo prima).

A loro volta pure le rivoluzioni comuniste parevano irreversibili, e invece non lo erano affatto. La storia non procede sempre in maniera lineare come pensavano i positivisti.

Detto questo, il calcio é un'industria, e come tutti i settori economici delle economie capitaliste é sempre sensibile alle crisi di sovrapproduzione (o guadagni marginali decrescenti, se vogliamo). Non mi aspetto che avvenga fra dieci o vent'anni, ma prima o poi 'la gente si stuferà del calcio', probabilmente.
E non dimentichiamoci che anche i dinosauri si estinsero a causa di un solo asteroide :teach:

Geralt di Rivia
14-09-16, 17:39
la globalizzazione é un fenomeno che dipende da presupposti precisi. Senza quei presupposti regredisce.

Mbeh, certo, moderni mezzi di comunicazione, di trasporto e di informazione (inimmaginabili ai tempi degli imperi coloniali ottecenteschi) con conseguente riduzione delle distanze, Paesi di centinaia di milioni di abitanti che hanno sperimentato lunghi periodi di crescita a due cifre con ciò che ne deriva a livello economico e sociale, internazionalizzazione delle attività produttive e commerciali a tutt'altro livello rispetto al passato, interazioni su scala mondiale in precedenza neanche ipotizzabili, così come le tecnologie disponibili... In effetti tutto questo potrebbe svanire da un momento all'altro. E io potrei trovarmi Mackenzie Davis stasera dentro al lettone :sisi:.

Jehan
14-09-16, 18:47
Devo dedurre che dopo la seconda guerra mondiale la tecnologia é regredita alle navi a vela?

Sbonk
14-09-16, 19:10
Devo dedurre che dopo la seconda guerra mondiale la tecnologia é regredita alle navi a vela?

no, ed è quello il punto :asd: cosa c'entrano l'imperialismo, le colonie e le rivoluzioni comuniste? La globalizzazione di cui si stava parlando è quella dei media, delle connessioni e delle comunicazioni, il fatto che il calcio (ma lo sport in generale) è passato da fenomeno locale ad essere fruibile con estrema facilità ad ogni angolo del mondo. Ora, tutto questo può finire? Tutto è possibile, ma penso che se e quando succederà avremo altri pensieri per la testa piuttosto che il calcio, tipo procacciarci il cibo a mani nude o come fare per eliminare la radioattività dal nostro corpo :asd:

Jehan
14-09-16, 19:22
no, ed è quello il punto :asd: cosa c'entrano l'imperialismo, le colonie e le rivoluzioni comuniste? La globalizzazione di cui si stava parlando è quella dei media, delle connessioni e delle comunicazioni, il fatto che il calcio (ma lo sport in generale) è passato da fenomeno locale ad essere fruibile con estrema facilità ad ogni angolo del mondo. Ora, tutto questo può finire? Tutto è possibile, ma penso che se e quando succederà avremo altri pensieri per la testa piuttosto che il calcio, tipo procacciarci il cibo a mani nude o come fare per eliminare la radioattività dal nostro corpo :asd:

I media e le TLC ovviamente sono parte importante della globalizzazione, ma non sono tutto. Circostanze storiche e politiche contano molto

Per conto mio il fenomeno della globalizzazione, impostosi col 'momento monopolare' USA, si basa su tre pilastri:

1) supremazia del dollaro come moneta di riserva mondiale
2) presenza militare USA pervasiva nel globo, specie sugli oceani per mantenere sicure le rotte globali (un po' come le legioni con Roma, o la Royal Navy con il colonialismo)
3) 'divisione del lavoro su scala internazionale', per cui posso tenere i capitali al sicuro in nazioni con rule of law e le industrie in nazioni di sfruttamento brutale (es. la Foxconn in Cina) dove la legalità non esiste.

Il calcio é un settore economico, e come tutti i settori economici risente molto dell'ambiente in cui é immerso. Se domani uno dei tre pilastri cede (boh, guerre valutarie e crisi del dollaro?) l'intero impianto scricchiola: in fondo i brand globali come Manchester United o Real Madrid fanno anche investimenti all'estero, no? Un clima meno favorevole agli investimenti farebbe riconsiderare tutto.

Certo non torneremo mai al vecchio calcio degli anni '70 perché il passato é sempre una terra straniera.

Frykky
14-09-16, 20:24
e che lo chiedi anche?