Ha giurato questa mattina nelle mani del Capo dello Stato, Giuseppe Provenzano, nuovo Ministro per il Sud. 37 anni, di San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, membro della direzione nazionale del PD, eletto nelle liste del segretario Nicola Zingaretti che lo ha nominato responsabile delle politiche del lavoro del partito.
La situazione è difficile, con “il depauperamento del capitale umano è la dinamica più drammatica a cui assistiamo da anni” e con la recessione che ha avuto “un impatto devastante”. Ma il Mezzogiorno non “è un vuoto a perdere”, perché ci sono “potenzialità inespresse” soprattutto in materia di sviluppo sostenibile. Giuseppe Provenzano, responsabile delle Politiche del Lavoro del Pd, è un profondo conoscitore dei problemi del Sud, avendo ricoperto fino a poche settimane fa il ruolo di vicedirettore dello Svimez. Nell’intervista a Impakter Italia analizza problematiche e indica possibili soluzioni.
Giuseppe Provenzano è ex vicedirettore dello Svimez e attuale responsabile delle Politiche per il Lavoro del Pd
Una domanda secca per iniziare. Qual è, o meglio, quanto è grave la situazione del Mezzogiorno?
Il Mezzogiorno è il luogo geografico in cui si combinano e si accentuano tutte le fratture della società italiana, di genere e generazioni, sociali e demografiche, di cittadinanza. Sette anni di recessione ininterrotta dell’economia, poi una ripresa troppo debole, ora lo spettro di una nuova recessione, hanno avuto un impatto devastante perché si sono abbattuti su un tessuto economico e sociale già fragile. L’austerità è stata fortemente asimmetrica, penalizzando il Sud non solo per gli investimenti pubblici che mancano, ma anche per la spesa corrente insufficiente per il fabbisogno della pubblica amministrazione. Questo ha portato all’esplodere di una enorme questione sociale, a un deterioramento della capacità di offrire servizi ai cittadini ed alle imprese, un avvitamento negativo per l’economia di tutto il Paese. Ma il Sud, voglio dirlo, è inserito nelle grandi trasformazioni della società italiana e dell’economia mondiale. È un’area particolarmente reattiva: nel 2015, in occasione della chiusura dei fondi europei, con un investimento pubblico leggermente maggiore, è andato meglio del Centro-Nord. Insomma, non è un vuoto a perdere, non destinato a rimanere fuori dai processi di sviluppo. Può essere l’occasione per un rilancio dello sviluppo e per l’accelerazione del tasso di crescita per l’intero Paese, c’è una forte interdipendenza tra le aree: è proprio questo che la proposta di autonomia differenziata di cui si discute da mesi non riesce a mettere a fuoco.
Quali sono le opportunità non sfruttate dello sviluppo sostenibile?
Il Mezzogiorno è un territorio molto esteso e ricchissimo di risorse naturali. È cruciale per il futuro dell’Italia immaginare a come impiegare queste risorse. Servono investimenti per traghettare il Paese verso un modello di sviluppo economico che si fondi sulla sostenibilità ambientale: una parte di Italia, senza un coordinamento strategico, lo sta facendo di suo, senza il contributo della politica. Per questo serve un disegno strategico anche perché è ormai evidente a tutti che la questione ambientale è saldamente collegata alla questione sociale. Un Green New Deal per l’Italia, che crei posti di lavoro proprio investendo sull’economia verde e sull’economia circolare, può parlare del Paese di domani proprio se assume la prospettiva del Sud. Guardare alla sostenibilità ambientale non come ad un vincolo, ma come una grandissima opportunità di sviluppo, innovazione e competitività. Una opportunità per valorizzare le aree naturali e protette, restituire centralità alle aree interne e rurali, rigenerare il patrimonio di piccoli Comuni.
E su quali settori bisogna insistere maggiormente?
Riassetto del territorio e tutela della biodiversità mediterranea, innovazioni di processo e di prodotto, decarbonizzazione ed energie nuove, mobilità sostenibile e rigenerazione urbana. Su tutto questo, il Sud presenta vantaggi competitivi e potenzialità inespresse. E proprio il Sud, dopo la stagione fredda e arida dell’austerità, è il luogo dove provare a costruire uno Stato intelligente e strategico per orientare l’innovazione, ma la precondizione è creare le condizioni di contesto per questo investimento: infrastrutture verdi, investimenti in conoscenza e nuove politiche industriali. In fondo, si tratta di fare esattamente quello di cui l’Italia e in particolare il Mezzogiorno hanno bisogno: rendere il Sud non solo attraente – come già è – ma anche attrattivo, di risorse umane e capitali, in una nuova dimensione geopolitica, che guardi al Mediterraneo non limitandosi a subire i contraccolpi delle crisi, ma provando a coglierne i vantaggi.
In questo contesto quali sono – e quanto sono grandi – le responsabilità della politica (e non mi riferisco solo al passato)?
Prendendo in considerazione la Seconda Repubblica, è alle classi dirigenti nel loro complesso che va rivolta la critica. La destra è stata a trazione nordista. La sinistra ha avuto apatia, quando non antipatia, verso il Sud, frutto di una certa “frigidità” nei confronti delle questioni sociali. Tutto questo ha lasciato proliferare oligarchie locali – nel frattempo, destinatarie di un trasferimento di potere eccessivo e disorganizzato – con cui le dirigenze centrali hanno stabilito nel migliore dei casi rapporti di reciproca e nefasta non interferenza. Nel peggiore dei casi, al Sud venivano garantiti compromessi scadenti in nome di equilibri nazionali. Ovunque, poi, le classi dirigenti locali sono state lasciate in balia di un processo di personalizzazione della politica, favorito anche da legislazioni elettorali (dai vizi troppo a lungo ignorati) che, sommate al rachitismo dell’organizzazione dei partiti, hanno esposto gli eletti all’insostenibile ricatto dei potentati economici locali. Venendo ai nostri giorni, la sinistra ha governato il Mezzogiorno in una condizione favorevole di cui nessuno aveva goduto, nemmeno la DC.
Le politiche sono arrivate troppo poco e troppo tardi. Tutto questo ha determinato una miscela esplosiva di sofferenza sociale e insofferenza politica manifestatasi nel voto: il M5S ha raggiunto percentuali che nessuna forza politica, nella storia repubblicana, aveva toccato. Ha raccolto la rabbia, ma con la sua inedia politica l’ha consegnata alla Lega. Ora, le politiche complessive del governo rappresentano un vero e proprio “tradimento” del Sud: autonomia differenziata e tagli gli investimenti, tagli ai servizi per finanziare la flat tax, indebolimento della lotta alla corruzione e alle mafie per sbloccare i cantieri al Nord. Ma questo scontento tornerà a guardare a sinistra solo se la sinistra saprà cambiare radicalmente, nel messaggio, nei gruppi dirigenti, nella modalità di raccolta del consenso.
Molto spesso le analisi si soffermano sui giovani che lasciano il Mezzogiorno. Cosa si può fare davvero per fermare questo trend (che in realtà va avanti da decenni)?
L’emorragia di persone dal Sud non tende a fermarsi. Il depauperamento del capitale umano è la dinamica più drammatica a cui assistiamo da anni. Spesso si tratta di giovani altamente formati che portano valore aggiunto altrove, sia da un punto di vista umano che economico, perché a casa loro non hanno orizzonti da seguire o non trovano nessuno nel mercato (e tanto meno nella P.A.) che sappia intercettare le proprie competenze. Poi c’è il grande tema delle università meridionali spesso non prese in considerazione perché lontane dal mercato del lavoro professionalizzato, attivando un circolo vizioso di disinvestimento. È necessario aggredire questo problema alla radice, investire per rafforzare il contesto produttivo del Sud e trasformare in imprese le competenze acquisite nelle università meridionali. Servono investimenti per gli atenei del Mezzogiorno, e poi serve l’anello mancante: il trasferimento tecnologico per creare lavoro buono e valore aggiunto nel territorio di appartenenza.
Più in generale da dove bisogna ripartire, da subito, per fermare la desertificazione economica del Sud?
Riequilibrare territorialmente e rilanciare gli investimenti pubblici, riportarli almeno ai livelli pre crisi e una politica industriale specifica per il Mezzogiorno, proprio per l’innovazione ambientale. Servirebbe un nuovo IRI, un “IRI della conoscenza”, dell’innovazione, che metta in rete eccellenze pubbliche e private, per disseminare un contesto, reso recettivo dagli investimenti. Per farlo, bisogna riorganizzare lo Stato nel Mezzogiorno. Un’amministrazione pubblica amica dello sviluppo ha bisogno di recuperare efficienza ma anche di risorse: avremmo bisogno di aprire a mezzo milione di giovani qualificati le porte di quella che ad oggi è la Pubblica Amministrazione più ridimensionata, vecchia e povera di competenze d’Europa. Questo è il grande investimento di cui avrebbe bisogno l’Italia e ancora di più il Mezzogiorno, non solo per rispondere alle esigenze di un rilancio produttivo, ma anche per ricostruire uno Stato sociale che possa assicurare ai cittadini i fondamenti essenziali del benessere ed evitare i fenomeni della desertificazione economica e umana.