Oggi partiamo da più lontano.
Klaus Kinski, da giovane, occupa un attico a Monaco, riempiendolo di foglie dai colori autunnali, e si mette a vivere lì.
Un giorno, però, la temibile polizia tedesca gli impone di andarsene, pena l’arresto. Kinski non si piega alla loro volontà: minaccia di salire sul tetto, di buttarsi di sotto, grida, strepita, ma alla fine viene buttato fuori.
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“Non lascerò mai questo attico. MAI.”
Una gentile signora, Klara, che ha un debole per gli artisti, decide di trarlo d’impaccio e se lo porta a vivere nella pensioncina che gestisce.
Lo nutre, gli fa il bucato, gli stira le camicie, ripassa le battute dei provini con lui, gli rifà il letto e non gli chiede una lira *.
Nel frattempo, la famiglia Stipetić va ad abitare proprio in quella pensioncina.
Stipetić, già, perché (subtrivia) Herzog al secolo si chiamava proprio così, aveva assunto il cognome della madre, dato che il padre non era mai stato troppo presente nella sua vita (in sostanza non gli chiedeva mai di fare due tiri con il suo vecchio).
Solo che poi una volta evidentemente avrà chiesto alla mamma, Elisabeth, come si chiamasse il padre. E il padre si chiamava Herzog, che in tedesco significa ‘duca’. Quindi Werner ha guardato la madre e le ha detto “Guarda. Io ti voglio bene, eh. Però Herzog. Cioè. Lo sai pure te che se voglio fare il regista di cui si innamorerà Giuliastràni a 28 anni dovrò avere un cognome molto più incisivo di Stipetić.”
“Chi è Giuliastràni, Werner?”
“Lascia stare, non è importante.”
Dicevamo.
All’ora di pranzo la famiglia Stipetić/Herzog (Elisabeth, Werner e i suoi fratelli Lucki e Tilbert) è intorno al tavolo insieme alla signora Klara.
“Mamma,” chiede Lucki, educatamente, “potresti passarmi il pan-”
In quel momento, una delle pareti del salotto salta letteralmente in aria. Si sente un botto clamoroso, che i vicini avranno battuto forsennatamente con la scopa su uno dei muri ancora in piedi per invocare il silenzio.
La porta è in terra, divelta dai cardini. Schegge di legno ovunque, intonaco e pezzi di muro sul pavimento, un fumo bianco e innaturale incornicia la scena. La signora Klara è a terra, Herzog ha scoperchiato il tavolo e lo sta usando come scudo per proteggere la sua famiglia, Elisabeth stringe i figli al petto e pensa: “Dio mio, hanno bombardato Monaco. E’ la guerra, di nuovo.”
Improvvisamente, iniziano a volare tutt’intorno quelli che sembrano panni bianchi. Sono camicie.
Una figura si erge davanti alla voragine; mentre il fumo si dirada tutti pensano al peggio: soldati? Rapinatori? Mitomani? Esattori delle tasse? Testimoni di Geova?
E’ Klaus Kinski, pallidissimo, con le vene del collo pulsanti e gli occhi fuori dalle orbite, che cerca con lo sguardo la padrona di casa.
“KLARA!! BRUTTA STRONZA!! I COLLETTI DELLE MIE CAMICIE!!”
“Klaus…?”
“I-COLLETTI-DELLE-MIE-CAMICIE!!! NON SONO STIRATI BENE!! GUARDA COSA HAI FATTO, BRUTTA STRONZA!!”
Altre camicie volano in aria, sui piatti rotti, sul pavimento, su Herzog.
Zio Werner a quell’epoca ha 13 anni, sin dal suo primo incontro con K. K. ne ha avuto puro terrore, e, ancora nascosto dietro al tavolo, pensa una cosa tipo “Santo cielo. Spero di riuscire a portar via la mia famiglia da questo inferno il prima possibile. Non voglio mai più avere a che fare con questo folle.”