Nanue Matabor è un ragazzo di 19 anni arrivato in Italia dal Bangladesh, il suo paese d’origine. La storia di Matabor è una delle tante storie di persone migranti che sono riuscite a raggiungere il territorio italiano nella speranza di ottenere una qualche forma di protezione internazionale, come il diritto di asilo: ma è in qualche modo esemplare, perché permette di mostrare e capire anche la burocrazia dietro questi tentativi, e le vite delle persone che devono decidere se i loro tentativi vadano accolti o no.
Matabor è arrivato in Italia lo scorso anno a bordo di una nave, come migliaia di altri migranti prima di lui, e ha alle spalle una storia familiare molto complicata. È cresciuto in un orfanotrofio ed è stato di fatto adottato quando ancora era piccolo da una famiglia bengalese, senza però passare per le procedure ufficiali. Alla morte dei suoi genitori adottivi, ha continuato a vivere insieme al fratello acquisito, impegnato nell’attività politica di opposizione. È scappato dal suo paese dopo essere stato aggredito da alcuni agenti di polizia che lo hanno picchiato e minacciato di morte, scambiandolo per suo fratello; è andato in Libia, dove ha lavorato per un po’ in un hotel prima che venisse distrutto, e poi si è messo di nuovo in viaggio verso l’Italia entrando in contatto con dei trafficanti di essere umani. Durante il periodo lontano da casa, la moglie di Matabor, rimasta in Bangladesh, ha partorito il loro figlio, che Matabor non ha mai visto.
Matabor ha ricevuto la risposta alla sua richiesta a ottobre, circa sei mesi dopo avere sostenuto il colloquio. A Matabor non è andata bene: la sua richiesta è stata rifiutata. Un interprete gli ha spiegato come fare a presentare un ricorso, in alternativa il governo avrebbe potuto comprargli un biglietto aereo per tornare in Bangladesh: «Matabor è rimasto in piedi, da solo, di spalle, e ha cominciato a piangere piano».