Gli operai del colosso dell’e-commerce: il palmare ci segna il tempo
Pausa pranzo: 25 minuti. Pasta al pesto, seppie in umido, verdure bollite. I fumatori stanno fra la mensa e la rete metallica. Sul cartello c’è scritto: «Quello che fai conta. Lascia pulita la tua area». Per i lavoratori di Amazon sta finendo il turno del mattino, dalla 6 alle 14. «Per ogni azione che dobbiamo compiere, il palmare fa il conto alla rovescia», dice un compagno di reparto di Guercio. «È una specie di pistola che legge i codici a barre», dice un altro. «Dentro si va di corsa, non abbiamo neanche il tempo di scambiare due parole» dice l’operaio Salvatore Buffo, trent’anni nell’edilizia a Lecce, prima di ritrovarsi dentro questo capannone immenso.
Qui non li chiamano operai. Ma picker se devono prendere la merce dagli scaffali. Packer se la devono impacchettare. E chiamano kaisen una lavagna su cui ognuno può scrivere consigli per l’azienda. «Fanno solo bene a metterci il braccialetto elettronico» dice Samuele Fioretti, tutto infervorato. «È un monito per la nostra politica. Hanno fatto entrare in Italia chiunque. Così adesso anche qui dentro ci sono un sacco di furti. Io l’ho scritto sulla kaisen che devono chiudere l’area food. Rubano dalle confezioni. Devono controllarla di più».
Blah blah.
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