I valori produttivi sono quelli di un indie dai fondi e dall’expertise solido, dal look piacevole, ma comunque, similmente a Wasteland 2, limitato nel design e in alcune funzionalità chiave, come i troppi caricamenti che accompagnano gli spostamenti tra un’area e l’altra (o anche una microarea e l’altra), seppur non troppo lunghi ma comunque materiale per quelli che temono le esperienze frammentate, l’assenza di cut-scene all’infuori di quella, evocativa, che apre il gioco, e la sparuta presenza dei close-up – i dialoghi viso a viso con alcuni dei personaggi e capifazione che incontreremo in Colorado – di cui ne abbiamo contati tre in trenta ore, per dare un’idea di quanto rarefatto sia il loro apporto al gioco quando invece li avevamo immaginati come uno standard (o giù di lì) per i confronti con gli NPC.
Quando parlavamo di salto di qualità, in apertura, ci riferivamo più a questo che all’abbandono delle dinamiche isometriche che hanno riportato a galla la software house di Fargo, e che ne costituiscono ancora oggi un marchio di fabbrica, ed è francamente un salto di qualità a portata di mano per un futuro progetto, se consideriamo i talenti a disposizione del team di sviluppo, a cominciare dal fondatore.