Alla prima tirata un pistone si era messo a picchiare contro la testata. Nonostante i frenetici cambi di marcia su un rettilineo piatto come un tavolo di biliardo, Zazzà non riusciva a spingere l’auto a più di cento chilometri l’ora. – Diocane, ce li abbiamo già sul culo! Avremmo dovuto fregare delle biciclette invece di ’sto catorcio. E adesso, eh? Inculati, ecco… diocane, fottuti come deficienti per quattro lire che non bastano neanche per l’avvocato, se non ci fanno secchi subito
Mi voltai. I carburatori della pantera ci ruggivano ai calcagni, ancora qualche secondo e la sbirraglia avrebbe aperto la danza. La sghignazzata di Mezzonaso esplose con la cadenza di una mitragliatrice sgangherata. Per un istante credetti che avesse avuto un’idea miracolosa. Ma quella degli imbecilli con l’improvviso colpo di genio è una cerchia maledettamente ristretta, inaccessibile perfino all’impeccabile curriculum di Mezzonaso che, strozzando la risata in un lamento prolungato, si voltò a guardarmi come se già si trovasse di fronte al giudice istruttore. Non so cosa abbia potuto leggere sulla mia faccia, però sentii che era veramente finita al vederlo aprire il finestrino e gettare la pistola di plastica oltre il ciglio erboso della strada. Mi vennero in mente i calli di mia madre, secondo lei gli si trasformavano in carboni ardenti ogni volta che io mi trovavo nei guai. La rividi nella sala colloqui del carcere, con il volto contratto dal pianto trattenuto. Ebbi una stretta al cuore. Di nuovo in gabbia, con una rapina sul groppo e lo scherno dei vecchi compagni di cella ai quali avevo promesso fuoco e fiamme. Per liberarmi dal nodo che mi serrava la gola aggredii Zazzà, che continuava a bestemmiare tartassando il volante di pugni. Si azzittì, ma solo per farmi pesare ancora di più la responsabilità di una catastrofe prevedibile. Comunque l’idea del colpo era stata mia, e l’unica pistola vera si trovava nella mia cintola. Cercavo disperatamente una soluzione, un’impossibile scappatoia attraverso quella distesa di campi rigorosamente seminati. Nemmeno un albero per far pisciare un cane, né il fremito d’un filo d’erba. Anche nel cielo, i brandelli di nuvole si erano immobilizzati. Stavamo vivendo l’incubo dei tre balordi in fuga che pattinano nell’assenza di movimento. La pantera continuava a tallonarci alla stessa distanza. Gli sbirri sapevano che non avremmo mai potuto raggiungere il centro abitato e, giudiziosamente, preferivano aspettare i rinforzi piuttosto che giocare agli eroi. Non avevamo scampo. A meno che… la fabbrica di conserve
A non più di tre o quattro chilometri, un pennacchio di fumo bianco si elevava pigramente verso il cielo plumbeo. Mi attaccai a quell’unico segno di vita con tutte le mie forze. Qualche anno prima avevo sacrificato le vacanze estive nella raccolta di pomodori, e ogni sera andavamo a scaricare tonnellate di sudore nelle fauci di quell’orribile prefabbricato in mezzo ai campi. Per accedere alla fabbrica bisognava raggiungere il paese e prendere la provinciale, che in quel punto correva parallela a una decina di chilometri sulla nostra destra. Però esisteva anche una scorciatoia, un viottolo tracciato dai contadini che per forza doveva sfociare in qualche punto davanti a noi. Probabilmente anche la pattuglia ne conosceva l’esistenza, ma c’era la possibilità che ignorassero l’interruzione dovuta al nuovo canale di scarico della fabbrica. Se fossimo riusciti a imboccarlo, e se c’era un santo protettore anche per i rapinatori, avremmo potuto trarli in inganno. Senza dire nulla agli altri, continuavo a scrutare la strada alla ricerca del sentiero. Improvvisamente un rumore sordo coprì gli starnuti del motore. Mezzonaso scrutò il cielo e si strinse nelle spalle come se stesse assistendo a un film già visto
– Ecco l’elicottero. Ci fermiamo a spiegargli le regole del gioco o aspettiamo che ci sparino addosso
Dal finestrino della pattuglia era spuntata la canna d’un mitra. Proprio nell’istante in cui Zazzà mollò l’acceleratore gli gridai di girare a destra
Il rumore secco di una raffica mi gelò il sangue. L’auto rimbalzava da una buca all’altra come una palla di caucciù. Grazie alla sorpresa, e al sacrificio delle sospensioni, riuscimmo a inchiodarla sul bordo del canale con un leggero vantaggio sulla pattuglia. L’elicottero si era lanciato troppo in avanti e ora effettuava un’ampia virata sulla fabbrica per ripiombarci addosso. Ci catapultammo fuori dall’auto e corremmo verso l’argine. Mezzonaso esitò davanti all’immonda schiuma giallastra che ci separava dall’altra riva. Zazzà correva a perdifiato sperando di trovare un guado più sicuro. Un’uniforme spuntò alle nostre spalle. Istantaneamente estrassi la pistola e le esplosi contro tutto il caricatore. Il poliziotto si gettò al suolo, ma ebbe il tempo di far partire una raffica. Mezzonaso cadde in ginocchio, fissando con terrore la macchia di sangue che gli si allargava sulla coscia sinistra. Lo spinsi violentemente in avanti e saltammo insieme nell’acqua putrida. Superato il panico iniziale, Mezzonaso smise di annaspare come un forsennato e si lasciò trasportare dalla corrente. Con l’intervento dell’elicottero, l’idea di requisire un’auto e lasciare la polizia con un palmo di naso sull’altra riva non aveva più senso. E una fuga attraverso la campagna inesorabilmente spoglia assomigliava alla ritirata di due scarafaggi lungo un corridoio di marmo. Quanti minuti ancora prima che le rive cominciassero a pullulare di divise?