Prendete una base platform e aggiungete una spolverata di metroidvania, tanto humor inglese e citazioni pop, poi completate il tutto con una leggera spruzzata di esistenzialismo e tanto cuore: ecco Horace, la piccola gemma indie di Paul Helman.
La cosa bella dello sdoganamento dello sviluppo indipendente è che le barriere d’ingresso si sono drasticamente ridotte: più o meno chiunque, con le competenze e le idee necessarie, può decidere di provare a creare un videogioco e tentare la fortuna su piattaforme più o meno aperte come Steam o Itch.io. La cosa meno bella è che, proprio perché le barriere sono ridotte, siamo tanto sommersi da tali produzioni, spesso per ovvi motivi poco pubblicizzate, che può essere difficile scovare quelle davvero meritevoli di attenzione. Talvolta può quindi capitare che un’opera, che pure avrebbe tutte le carte per sfondare, passi sotto i radar e non riesca a trovare spazio sotto i riflettori mainstream, con tutte le conseguenze del caso. Il gioco di cui voglio parlarvi oggi, Horace, rientra a pieno titolo in questo discorso. All’apparenza può essere facile liquidare Horace come l’ennesimo platform 2D dallo stile retrò, uno dei tanti che puntano sul fattore nostalgia rispolverando la pixel art e un game design che richiama quello dei classici dell’era NES o SNES. Basta pochissimo però per rendersi conto che di Horace tutto si può dire, tranne che sia convenzionale.
Parliamo di uno di quei progetti frutto del lavoro di una sola o poche persone, come i ben più celebri Undertale di Toby Fox, Axiom Verge di Thomas Happ o Hollow Knight del trio australiano di Team Cherry. Horace è, in tutto e per tutto, una creatura del britannico Paul Helman, con la collaborazione del programmatore Sean Scaplehorn. Va da sé che Horace sia un’opera assolutamente personale, ma in questo caso ancora più che in altri si può dire che l’autore abbia impresso sul gioco la sua impronta, creandolo a propria immagine e somiglianza. Se a renderci ciò che siamo sono la nostra memoria e le nostre esperienze, quindi anche i prodotti culturali di cui fruiamo, si può senza dubbio dire che Paul Helman abbia infuso in Horace tutto se stesso, a partire dalla pletora di rimandi e citazioni a opere che, chiaramente, hanno segnato la sua formazione.
C’è UN ASPETTO CHE RENDE HORACE SPECIALE ALL’INTERNO DEL SUO GENERE, ED è LA FORTE COMPONENTE NARRATIVA
Un altro elemento che dona personalità al gioco è la scelta di far passare tutta la narrazione attraverso il punto di vista di Horace: il robot racconta ogni avvenimento con la stessa voce monotona e inespressiva, generando diversi momenti ironici grazie alla sua ingenuità e alla sua scarsa comprensione delle emozioni umane. L’ironia è del resto una costante nel gioco, che mantiene toni leggeri per gran parte del tempo, sfoggiando uno humor tutto inglese, situazioni folli e personaggi spesso volutamente sopra le righe.
OGNI PERSONAGGIO è TRATTEGGIATO IN MODO SEMPLICE, MA AFFEZIONARSI A LORO è FACILISSIMO
Una delle scene che più mi è rimasta impressa è quella immediatamente successiva al momento in cui — piccolo SPOILER warning — Horace si trova ad uccidere per errore un uomo anziano che stava minacciando lui e i suoi amici con un fucile. La regia di Helman ci mostra la scena al rallentatore, con l’espressione di Horace che passa lentamente dallo sgomento all’orrore mentre si rende conto di aver letteralmente polverizzato un essere umano. Subito dopo, una sequenza totalmente silenziosa della strada grigia e malinconica che scorre sempre in avanti, alternata a primi piani del robot che, nel furgone, riflette sconsolato su quanto appena avvenuto.
HORACE è UN GIOCO DAI TONI TENDENZIALMENTE LEGGERI E UMORISTICI, MA CHE DI TANTO IN TANTO NON MANCA DI SFERRARE QUALCHE COLPO DI QUELLI PESANTI
Horace è così: un gioco dai toni tendenzialmente leggeri e umoristici, che non si prende troppo sul serio, ma che di tanto in tanto non manca di sferrare qualche colpo di quelli pesanti, sfociando volentieri nel drammatico. Non forzosamente strappalacrime, anche se a dirla proprio tutta qualche lacrima è facile versarla in alcuni momenti, ma un dramma che si ricollega a quelli che sono i temi cardine dell’opera di Helman, tutti legati alla progressiva scoperta di sé e del proprio scopo da parte del simpatico androide. A tal proposito, uno dei momenti più significativi arriva nelle prime fasi dell’avventura, quando il Vecchio invita Horace ad un ristorante, e i due parlano della vita, dell’universo e di tutto quanto. Il ristorante, naturalmente, è al numero 42, cifra familiare a qualsiasi fan di Douglas Adams.
Nella discussione che ne consegue, in cui Horace interroga il Vecchio sul significato della vita e sul senso della sua stessa esistenza, il robottino troverà lo scopo che lo accompagnerà per tutta l’avventura, e che quindi diventerà anche l’obiettivo del giocatore: raccogliere un milione di rifiuti. Uno strano scopo nella vita, non c’è dubbio. E nonostante le circostanze portino sia Horace che il giocatore a barcamenarsi tra esigenze ben più impellenti, il tarlo del milione di rifiuti resterà sempre lì, sullo sfondo. Si potrebbe dire che sia un’ironica declinazione in chiave esistenzialista del paradigma dei collectathon, quella particolare tipologia di platform strutturati attorno alla raccolta di decine se non centinaia di collezionabili, e del disturbo da accumulo tipico di molti videogiocatori. Del resto, citando il Vecchio: “La vita è come un gioco, ognuno ha bisogno di uno scopo”.
L’esistenzialismo resta il fil rouge che lega ogni elemento del gioco e della parabola di Horace, di cui seguiamo i passi dal momento della prima accensione a quello del suo, inevitabile, spegnersi. In questo senso anche l’estrema variabilità del gameplay, che spezza frequentemente la base platform con le digressioni più svariate, rimanda all’estrema diversità delle esperienze di vita di Horace, la cui sorpresa costante rispecchia quella del giocatore. Si va da un’intera fase di gioco che assume una struttura spiccatamente metroidvania, in cui peraltro l’obiettivo finale è sconfiggere un cervello in una teca, a numerosissimi minigiochi che si inseriscono nella vena citazionista dell’opera, richiamando classici videoludici come Space Harrier, Outrun o Pac-Man, in quella che assume i tratti di una grande celebrazione della storia del medium.
HORACE NON HA GRANDI VERITà DA SVELARE, MA è IL SUO CUORE PULSANTE A RENDERLO UNICO
Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.