Che ne è stato degli sparatutto in terza persona?

A cavallo tra il primo e il secondo decennio degli anni Duemila c’è stata una fase durante la quale sembrava che a ogni angolo spuntassero nuovi sparatutto in terza persona. Una moda passeggera? Sì e no.

tps

Per impostare un discorso sugli sparatutto in terza persona – TPS da questo momento in avanti, abbiate pietà di me e della mia tastiera – è importante definirne le caratteristiche. I discorsi tassonomici non sono esattamente una mia passione, per cui mi limito a dire che in linea generale sto parlando dei TPS in senso contemporaneo, perciò telecamera sopra le spalle (solitamente decentrata e ravvicinata), focus sulle sparatorie e sistema di coperture.

UNA NUOVA VISIONE

Gears of War è ovviamente l’elefante nella stanza, ma sappiamo tutti bene che Epic non è partita da zero; da una parte si è ispirata ai poco memorabili Operation Winback e Kill Switch, i primi titoli a integrare il sistema di coperture nel gameplay, dall’altra non si può negare l’enorme influenza sul medium di Resident Evil 4, con la sua claustrofobica telecamera e il suo ritmo più compassato dovuto all’impossibilità di muoversi mentre si spara. Cliff Bleszinski e soci hanno fatto in ambito videoludico quello che ha Apple ha sempre fatto in ambito tecnologico: hanno preso un determinato elemento già esistente e lo hanno perfezionato, rendendolo adatto alle masse… lo hanno reso figo, se vogliamo usare un linguaggio da giovani (è così che parlano i giovani, giusto?).

TPS

La rivoluzione di Gears era una rivoluzione per certi versi necessaria, perché rendeva i tps più facilmente fruibili agli utilizzatori del controller senza rinunciare a un sistema di mira libera come a volte era stato fatto in precedenza, per esempio nei primi Tomb Raider e in Syphon Filter. Su console c’erano già stati diversi sparatutto in terza persona con mira libera (su due piedi mi vengono in mente Max Payne e Freedom Fighters), ma non avevano mai avuto una posizione dominante sul mercato. Da quel lontano 2006 i giochi in stile Gears of War avrebbero iniziato a spuntare come funghi. In quella fase si aveva l’impressione di avere a che fare con una serie infinita di giochi fatti con lo stampino; oggi invece abbiamo una prospettiva più storica, ed è facile rendersi conto di come in realtà ci fosse una grande varietà di approcci.

OSSERVANDO CON DISTACCO LE PUBBLICAZIONI DI QUEGLI ANNI, DIVENTA EVIDENTE LA VARIETÀ DI APPROCCI, FRA ALTI E BASSI

Certo, non mancavano prodotti realizzati superficialmente con lo scopo di capitalizzare sulla moda del momento: Spec Ops: The Line, per esempio, mettendo da parte l’ispirazione letteraria, non si allontanava di una virgola dagli stilemi del genere (stiamo ancora cercando di capire quali fossero le meccaniche legate alla sabbia), così come i due Kane & Lynch, facenti parte di una parentesi “commerciale” di IO Interactive che ho sempre trovato molto infelice. Non bisogna però dimenticare che negli stessi anni arrivavano anche tante produzioni con dietro idee originali, tra cui due targate SEGA: Vanquish, dove il sistema di copertura era più uno specchietto per le allodole dietro al quale si nascondeva un bullet hell dal ritmo forsennato, e Binary Domain, che, non senza qualche scivolone di troppo, proponeva una storia non lineare e dialoghi a scelta multipla pur non essendo un gioco di ruolo; incidentalmente quest’ultimo arrivava sul mercato quasi in contemporanea a Call of Duty: Black Ops 2, che faceva più o meno la stessa cosa in un contesto diverso.

Pure un altro mostro sacro dell’industria giapponese, Capcom, cercò di ritagliarsi la sua fetta con la saga Lost Planet, che oggi però ricordiamo quasi solo per la grafica spettacolare del capostipite e per il fallito tentativo di occidentalizzare il brand col terzo capitolo, affidato a Spark Unlimited, una software house dal curriculum non esattamente intonso: Legendary e Turning Point sono giochi che ricordo ma che vorrei dimenticare. Sono da citare pure Army of Two con il suo focus totale sulla cooperazione (idea non scontata oltre dieci anni fa), le velleità tattiche dei Ghost Recon: Advanced Warfighter, giocabili sia in prima che in terza persona su Xbox 360 ma limitati alla prima su PC, e il divertimento caciarone dei Transformers di High Moon Studios prodotti di Activision, in particolare i due ispirati al cartone e non alla saga cinematografica. Non me ne vogliate, ma butto dentro al calderone pure Alan Wake, i cui combattimenti pressoché continui lo avvicinavano più allo sparatutto che al gioco action/horror che voleva essere; senza dubbio la sua visione iniziale (prima dei pesanti tagli) era ben diversa, ma bisogna valutare quello che è effettivamente arrivato sul mercato.

IL COLOSSAL DI CUI I TPS AVEVANO BISOGNO

Nel 2012 l’evoluzione del genere arriva al suo apice con la pubblicazione di Max Payne 3, quasi dieci anni dopo il secondo episodio. Erano tanti i dubbi sul colossal di Rockstar, che non era stato realizzato da Remedy e sembrava allontanarsi troppo dalle atmosfere noir a cui il pubblico era abituato, ma si rivelarono in gran parte infondati: il capitolo conclusivo della saga del poliziotto newyorkese è infatti considerato uno dei migliori TPS della generazione, se non uno dei migliori giochi in assoluto usciti su Xbox 360 e Playstation 3. Max Payne 3 faceva suo l’insegnamento di Gears ma lo piegava al gameplay a base di bullet time e schivate dei due predecessori; un’opera di accurato bilanciamento che ancora oggi ha pochi eguali. Forse non avrà l’impatto narrativo dei prequel, ma nel 2022 resta ancora perfettamente fruibile dal giocatore moderno.

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QUELLO FRA MAX PAYNE E JOHN WOO È UN RAPPORTO INTERESSANTE, DI RECIPROCA ISPIRAZIONE

Prima di andare avanti mi preme citare anche Stranglehold, che nel 2007 anticipava quello che sarebbe stato Max Payne 3. Bullet time, doppie armi, un agente di polizia sopra le righe, Stranglehold sembrava una semplice copia dei Max Payne di Remedy con l’aggiunta di un blando sistema di coperture. La realtà dei fatti è che l’opera di Midway Games fungeva da seguito del film Hard Boiled di John Woo, uno dei capisaldi del cinema action di Hong Kong, che a sua volta fu tra le maggiori fonti di ispirazione di Max Payne. È nato prima l’uovo o la gallina? Mentre riflettete su questa domanda esistenziale potete andare a recuperare Stranglehold, pubblicato su GOG qualche anno fa. Non è invecchiato bene come Max Payne 3 (del resto i valori produttivi erano ben diversi), ma ha ancora tanto da dire.

COMMISTIONE TRA GENERI

Se adesso vi chiedo di trovarmi un gioco che abbia raccolto l’eredità di Max Payne 3 e soci qual è la vostra risposta? Un’impresa quasi impossibile: escludendo Quantum Break, The Order: 1886, Splatoon e qualche titolo più piccolo, si può dire senza timore di essere smentiti che lo sparatutto in terza persona come genere a sé stante è uscito dai radar, ma la sua impostazione di base è tutto fuorché scomparsa. I semi di questo cambiamento, come spesso succede, li troviamo nel momento di picco del genere. La settima generazione non è stata solo la generazione degli sparatutto (prima o terza persona che sia), ma anche del definitivo sdoganamento degli open world e dell’esplosione di Naughty Dog a livello commerciale. Cosa accomuna molti giochi a mondo aperto e il duo delle meraviglie composto da Uncharted e The Last of Us? Proprio la presenza di un sistema di combattimento da tps, che però va a integrarsi con componenti diverse senza prendere il sopravvento.

Cosa dire poi dell’enorme influenza di Mass Effect sull’industria? Tutti i giochi elencati in precedenza hanno avuto un tale successo di critica e, soprattutto, di pubblico da generare una serie di imitazioni più o meno azzeccate e da rafforzare l’affermazione dello sparatutto in terza persona come parte a volte imprescindibile di esperienze più grandi. Le sparatorie di Uncharted sono fondamentali per la formula quanto lo sono le fasi platform e la risoluzione di enigmi. Molto meno influente è stata l’alternanza tra la prima e la terza persona dei Rainbow Six: Vegas, ma ci tenevo a citarli perché sono giochi che amo e vorrei che Ubisoft riprendesse le fila del discorso integrando il loro gameplay con la narrazione non lineare del defunto Patriots; vana speranza direte voi, ma lasciatemi almeno quella.

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Con il passare degli anni la commistione dei generi è diventata sempre più dominante, il videogiocatore moderno si aspetta giochi che offrano un’esperienza valida su più livelli, non monolitica. Un corridoio più o meno articolato e nemici a bizzeffe da ammazzare non sono più sufficienti, cerchiamo sistemi di crescita da gioco di ruolo, momenti narrativi ed esplorativi, meccaniche stealth da alternare all’aggressione ad armi spianate. Se tutto ciò manca abbiamo l’impressione di avere davanti un gioco vuoto. Sarebbe accettabile per un prodotto indie, ma da quando gli sviluppatori indie si dedicano ai TPS? Gears sembra essere rimasto l’ultimo faro nella nebbia, ma pure l’esclusiva Microsoft sta disperatamente cercando di rinnovarsi e aprirsi, e non mi stupirei se il sesto episodio intraprendesse una strada simile a quella intrapresa da 343 Industries con Halo Infinite. Intanto Remedy, terminati i lavori su Quantum Break, ha continuato a evolvere ibridando in Control il suo tradizionale gameplay a base di sparatorie con fortissimi elementi metroidvania, riuscendo a ottenere un risultato molto più organico di quanto ci si potesse aspettare.

Sempre a proposito di ibridazioni, non è casuale le meccaniche da tps si siano unite al loot in stile Diablo in diversi looter shooter, a partire da Warframe fino ad arrivare al recente Outriders. La visuale in terza persona è perfetta per un gioco a base di bottino anche perché ne sottolinea l’impatto estetico; una caratteristica da non sottovalutare, del resto a chi non piace ammirare le proprie conquiste (o i propri acquisti, se vogliamo essere cattivi)? Non tutto è andato nel migliore dei modi, ma i fallimenti di The Division (parziale) e Anthem (molto meno parziale) sono conseguenza di scelte di design sbagliate alla radice e non hanno niente a che vedere con il sistema di combattimento scelto.

anche se ha perso mordente come esperienza pura, il genere dei TPS si è dimostrato malleabile

L’altra grande moda delle ultime due generazioni sono stati i soulslike, e pure in questo ambito il genere dei TPS si è dimostrato straordinariamente malleabile: Remnant: From the Ashes è stata una sorpresa inaspettata e mi aspetto che faccia scuola. E Fortnite? Non è forse lo sparatutto in terza persona più famoso di sempre? Ovviamente sì, ma il suo successo è stato tale da rendere complicato inserirlo in un discorso relativo ai TPS, che sarebbe davvero troppo limitante. Posso però dire che vale un discorso simile a quello fatto sui looter shooter: la terza persona ha permesso lo sfoggio di skin e balletti vari, e bisogna ammettere che questa caratteristica è stata importantissima per l’esplosione del gioco di Epic.

Fortnite The End

In definitiva, lo sparatutto in terza persona si è dimostrato estremamente adattabile ai cambiamenti del mercato, diventandone allo stesso tempo vittima e protagonista. È difficile pensare che oggi possa arrivare qualche prodotto capace di insidiare Max Payne 3 (o anche solo disposto a provarci), ma potete stare certi che continueremo a nasconderci dietro ai muretti ancora per tanti anni.


Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.

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