Gli sviluppi tecnologici dell’ultima decade hanno permesso a numerosi studi indipendenti in tutto il mondo di esprimersi nei più diversi esperimenti videoludici. La nostra penisola non è da meno e sembra aver sviluppato una fascinazione per un tipo di atmosfera in particolare: quella horror.
Un paio di settimane fa abbiamo visto quanto possano essere fluide le definizioni di survival e horror e quanto si possano adattare ai più disparati contesti. Proprio negli ultimi anni una manciata di sviluppatori italiani li ha esplorati a sua volta, consegnandoci diverse esperienze. Dalle inquietanti ville di Remothered a quel Daymare che si rese popolare per essere in origine nientemeno un remake amatoriale di Resident Evil 2, passando per il gioco-documentario The Town of Light, possiamo dire che l’ispirazione non manchi. Il che è interessante perché quando mi chiedono di videogiochi importanti sviluppati in Italia non è che abbia proprio la risposta pronta. Certo, ci sono stati, ma non abbiamo l’icona pop che può essere un Geralt di Rivia o la rutilante varietà che studi inglesi, francesi e tedeschi ci hanno mostrato negli anni. Però forse è iniziato qualcos’altro: un trend. Un interesse collettivo verso l’horror.
GLI ZOMBI
Proprio Daymare:1998 uscito nel 2019 è stato il capofila. Nato appunto anni prima come remake amatoriale di Resident Evil 2 prima che Capcom decidesse di svilupparlo in casa, il gioco è comunque rimasto un fiero e dichiarato omaggio alla serie, tanto da inserire nel titolo l’anno d’esordio del primo indimenticabile capitolo della saga giapponese. I richiami sono moltissimi. Iniziamo il gioco nei panni di un losco e freddo agente con equipaggiamento di grado militare. Tuta nera, elmetto, maschera antigas, armi leggere, identità celata, un misterioso carico da prelevare. Hunk, sei tu? Il resto del prologo scopre le altre carte: l’operazione di estrazione non va esattamente come previsto, l’elicottero dei nostri agenti di nero vestiti ha un incidente e l’atterraggio di fortuna avviene nei pressi di una piccola città di periferia. Non c’è nessuna speranza che il carico sia rimasto intatto e infatti il gioco vero e proprio ci alternerà tra i due protagonisti, uno in cerca di risposte, l’altro di una via di fuga mentre la zona si riempie di non morti. L’insalata di citazioni continua con le save room dove dovremo riorganizzare le risorse, la telecamera da sopra la spalla in piena ispirazione Resident Evil 4, l’inventario che non mette in pausa il gioco come in Dead Space.
I personaggi sono lenti, la mira è imprecisa e molto difficilmente capiterà di avere più di 2 caricatori di scorta. C’è tuttavia qualche guizzo personale che permette a Daymare di distinguersi dai suoi maestri. In primis l’armamanetario reperito rimane visibile addosso al personaggio creando la fermezza di un inventario ancora più limitato di quelli a cui siamo stati abituati: potremo trasportare solo quello che entra nelle tasche e fondine e nulla di più. In secondo luogo è impensabile tentare di abbattere ogni nemico ci si pari di fronte, in quanto i non morti di Daymare sono ben coriacei e nemmeno puntare alla testa è risolutivo. Di sicuro aiuta, ma dovremo fare i conti con una mira più difficile e il rischio di mandare a vuoto preziosi colpi quando invece potrebbe essere più efficiente guadagnarsi un paio di secondi con uno spintone per ritirarsi in un’altra stanza. Aggirarsi con circospezione e scegliere saggiamente come, o anche solo se ingaggiare lo scontro è una costante del gioco.
LA CORRETTA GESTIONE DELL’INVENTARIO SARÀ FONDAMENTALE PER SOPRAVVIVERE AI TANTI ORRORI DI DAYMARE: 1998
Tutto considerato, al netto di qualche rigidità di gameplay, l’esperimento ha avuto un buon riscontro di pubblico, tanto da incoraggiare Invader Studios a riprovarci con un sequel prossimamente in uscita, Daymare: Sandcastle.
IL THRILLER
La serie Remothered conta invece già all’attivo due capitoli, Tormented Fathers e Broken Porcelain usciti rispettivamente nel 2018 e 2020. Lontano dall’atmosfera da monstermovie di Daymare, Darril Arts e Stormind Games preferiscono guardare ai classici Clock Tower e Haunting Ground, bloccando le protagoniste di turno in ampi edifici assieme a inquietanti inquilini che non tollerano intrusi e che non possono essere sconfitti. Nel primo siamo nei panni della misteriosa Rosemary Reed, intenta a indagare privatamente su una misteriosa sparizione, a proposito della quale il benestante dottor Felton potrebbe saperne qualcosa. L’inizio ci lancia quindi di fronte alla sua villa, in una piccola piazzetta della quale nessuno sembra prendersi cura da un po’. La vegetazione si sta riprendendo il suo spazio e alberi torreggiano ai lati delle bucoliche strade.
INVECE CHE A RESIDENT EVIL, REMOTHERED GUARDA A CLASSICI COME CLOCK TOWER E HAUNTING GROUND
Squadra che vince non si cambia, e sebbene nel secondo capitolo cambino ambientazione e personaggi la struttura resta la medesima, con l’unica variante di introdurre un elemento paranormale. Nei panni della giovane Jennifer siamo stavolta bloccati in un hotel durante la stagione invernale, mentre fuori infuria il maltempo e anche qui iniziano a succedere strane cose, nella forma di un inquilino che non dovrebbe esserci in primo luogo, ma che soprattutto non sembra esattamente umano. Gli adulti presenti liquidano tutto come brutti sogni e immaginazione adolescenziale, quindi non resta che scoprire la verità da soli. La protagonista è però di statura minuta nonché reduce da una lesione al braccio, quindi non può opporre nessuna difesa fisica credibile nei confronti degli antagonisti. Molto meglio aggirarsi silenziosi come un gatto, imparando a orientarsi e svelando pian piano i misteri di quella che nelle intenzioni del creatore Chris Darril diventerà una trilogia, con un sottile filo rosso a unire le diverse storyline. Non mancano citazioni a vari rappresentanti del cinema thriller/horror dello scorso millennio quali Rosemary’s Baby, Shining e Suspiria, avvicinando questo gioco a una dimensione certamente più narrativa che ludica. La breve durata, 8 ore circa per ciascun capitolo, suggerisce a sua volta l’intenzione di tenere un ritmo di gioco compatto, puramente funzionale a raccontare la storia senza distrarsi più del necessario. Pur con un gameplay minimale e non esente da sbavature è un piacere progredire negli edifici stanza dopo stanza, conoscendoli sempre meglio, preparando sempre nuove strategie di fuga a seconda di dove il nostro invadente inseguitore ci avrebbe scoperto. Siamo in chiaro svantaggio, ma non completamente inoffensivi.
Completa il quadro una colonna molto d’atmosfera, con spettrali tracce ambient e malinconiche che ben si adattando alla solitudine di fondo che vivono le nostre protagoniste mentre svelano antichi rancori e inconfessabili segreti. Pur perfettibile sotto molti aspetti, questa serie riesce a ritagliarsi una certa personalità e il setting maturo non può che intrigare i viaggiatori dell’horror che cercano esperienze più sottili di quelle offerte da creature mostruose ed esperimenti finiti male.
IL VIAGGIO
Sempre nel 2019 esce Close to the Sun dello studio Storm in a Teacup, che strizza l’occhiolino al walking simulator horror, mettendosi nello stesso club di Observer, Blair Witch e più in generale quello che è l’approccio di Bloober Team. Benché quest’ultimo sia uno studio molto chiaccherato, sai per motivi positivi che negativi, nel tempo ha saputo farsi riconoscere. Da un lato si punta il dito verso il fatto che nei loro giochi ci sia poco da fare, tanto che Layers of Fear, la loro opera prima, si è guadagnata il malizioso soprannome di “simulatore di porte”. Dall’altro Observer e The Medium hanno corretto un po’ il tiro mantendo comunque una grande attenzione all’atmosfera, sempre densa e pregnante sia che si tratti di un condominio in una distopia Cyberpunk, sia che si tratti di ambientazioni a metà tra due dimensioni che citano i mondi alieni di Beksiński. Close to the Sun decide a sua volta di puntare sul fascino del mondo di gioco, con una premessa originale, ma neanche troppo: in un passato alternativo Nikola Tesla ha, a un certo punto della sua carriera, costruito la Helios, una titanica nave-cittadella che viaggia in acque internazionali e dove ha potuto sviluppare le sue invenzioni senza vincoli politici o di budget. “Oste, c’è del Bioshock nel mio gioco”. Sì, il prestito tematico e stilistico è evidente, ma la nave si presta a ospitare un altro tipo di situazione.
È chiaramente successo qualcosa di grave e recente: c’è disordine, non c’è nessuno in giro e, cosa più curiosa, la protagonista inizia ben presto ad avere visioni del passato, che però per qualche motivo sembrano di natura tecnologica. L’atmosfera è elegante, opulenta e maestosa. Le dimensioni della Helios non vengono mai chiarite e proprio per questo si crea un fascino particolare mentre camminiamo nei suoi vari settori, come se stessimo esplorando un mondo familiare, ma al tempo stesso non confortevole.
COM’È CHIARO GIÀ DAL TITOLO,CLOSE TO THE SUN VUOLE RIPORTARCI AL MITO DI ICARO
IL PASSATO RECENTE
Uscito nel 2016, The Town of Light, del team fiorentino LKA è un po’ l’estraneo in questa carrellata. Siamo ancora di più nella zona del walking sim, con pochissimi ostacoli e molte stanze da visitare. Il contesto videoludico più tranquillo e meno esigente dal punto di vista dell’impegno richiesto al giocatore. Sarebbe tutto molto rilassante, senonché il luogo che ci viene chiesto di esplorare è nientemeno che l’ex manicomio di Volterra. È importante chiarire che il gioco vuole avere un taglio quasi documentaristico: non c’è nessun jump scare, nessuno a inseguirci, nessuno in generale. Il luogo è palesemente disabitato da anni e qualche sporadico rumore e cigolio fanno parte del suono ambientale, senza alcuna intenzione malevola. Inoltre il gioco si svolge di giorno, cosa abbastanza sorprendente visto il contesto. Il tutto non vuole farci paura, quanto piuttosto proporre un’esperienza di carattere più intimo, introspettivo. Vestiamo i panni di Reneé, una ex paziente di suddetto manicomio in cerca di risposte. Le memorie sono confuse, incomplete e a volte traumatiche. L’obiettivo finale è ricomporle trovando documenti abbandonati e attivando flashback in modo da ricostruire gli eventi che hanno portato la ragazza a una lunga permanenza all’interno della struttura e a viverne i punti più oscuri.
Senza giudicare e senza perdonare, quello che LKA ci propone è un viaggio nella storia e nelle memorie, in un tempo in cui la scienza medica era ancora giovane e inesperta nei riguardi della mente umana e vi era uno stigma notevole verso chiunque avesse mai avuto a che fare con un manicomio. The Town of Light non è un horror, o quantomeno non lo è con le stesse intenzioni degli altri, ma ho comunque sentito di inserirlo nell’articolo perché nella sua malinconia sa anche essere sinistro.
C’È UN FILO CONDUTTORE FRA THE TOWN OF LIGHT E MARTHA IS DEAD, LE DUE PRODUZIONI DI LKA. A PARTIRE DALL’AMBIENTAZIONE STORICA, IN ENTRAMBI I CASI LEGATA AL VENTENNIO FASCISTA E ALLA GUERRA
Dovremo passare dall’ingranditore, dall’immersione nel liquido di sviluppo e dal tempismo ideale per estrarre la foto sviluppata, con tutte le altre fasi omesse che vengono comunque menzionate dagli sviluppatori, cercando il compromesso tra accuratezza storica e un’esperienza di gameplay fluida. Che però non mancano di momenti più tipicamente inquietanti, ponendo Martha is Dead in un contesto videoludico più giocoso rispetto al suo predecessore, ma non per questo più leggero. I temi toccati da LKA sono, senza fare spoiler, delicati, e ho deciso di menzionare questo gioco per ultimo proprio in quanto esperienza più densa della carrellata, nonché il più recente in ordine di uscita.
Non escludo che nel sottobosco indipendente ci possano essere molte altre esperienze degne di nota, ma ho voluto concentrarmi su una finestra temporale circoscritta e sui giochi che hanno avuto un certo volume di attenzione, anche internazionle, proprio per indicare un possibile trend. Come dicevo nell’intro, personalmente fatico a trovare videogiochi italiani che hanno lasciato un’impronta riconoscibile e longeva nella cultura pop del gaming. Però stavolta in pochi anni ci sono stati ben quattro team che ciascuno in modo diverso e con una riconoscibile continuità interna stanno esplorando l’horror/thriller videoludico e non posso che essere entusiasta di questa spinta collettiva. Il tema palesemente piace, non resta che stare a vedere i nuovi progetti che vi graviteranno attorno.
Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.