Le case, luogo fondante dei videogiochi – Parte 1

Uno degli elementi che più di tutti è stato sottovalutato nel corso dei vari passaggi generazionali del videogioco 3D è l’idea di “casa”, o più in generale di luogo ristretto e conchiuso nel quale ambientare tutta l’avventura. La scelta di far svolgere l’intera partita all’interno di luoghi così particolari può essere, agli occhi di un osservatore moderno, una scelta di ambientazione come un’altra, priva di alcuna riflessione profonda da parte degli sviluppatori. A mio modo di vedere le cose non stanno così, e nel corso dell’articolo cercherò di mostrare come l’idea di “luogo altro” separato dal mondo in senso geografico o materiale, sia una delle più vincenti, oltre che fondanti, della storia dei videogiochi.

case videogiochi

L’ultima parte degli anni ‘90 e l’inizio dei 2000 hanno visto il 3D porsi come standard di tutta una nuova generazione di videogiochi che potevano contare su una maggiore potenza di calcolo delle macchine di riferimento e quindi su una migliore resa visiva di esperienze via via sempre più narrative. A partire da Resident Evil, che sceglie di ambientare praticamente l’intera avventura all’interno di una villa ormai divenuta iconica e caratteristica, passando per Metal Gear Solid che ci proietta direttamente in un’isola sperduta, totalmente ghiacciata ma luogo di basi missilistiche nucleari, fino ad arrivare alla Rapture tanto ostentata da Andrew Ryan di BioShock, molti titoli scelgono di ricorrere a un unico luogo di riferimento per tutta l’esperienza, possibilmente chiuso, limitato o talmente estraneo alla realtà da risultare quasi irreale agli occhi del giocatore. 

SCOPRIRE QUESTI LUOGHI-ALTRI NON È ESPERIENZA SOLO TURISTICA, MA ANCHE PARTECIPATIVA

L’idea alla base di questo concetto è la stessa che possiamo trovare in opere letterarie e cinematografiche come Alice nel paese delle Meraviglie o il Peter Pan della Disney. In entrambi i casi, il Paese delle Meraviglie e L’Isola che non c’è sono luoghi inseriti nel mondo reale ma esterni alla comprensione dell’uomo. Lo stesso vale per i nomi citati poco sopra. In questi luoghi ci aspettiamo che succedano cose incredibili e irreali e che diventano verosimili solo e proprio perché avvengono in questi luoghi. L’esperienza che si genera non è solo turistica ma partecipativa: il giocatore sente di trovarsi in un luogo diverso dove può vivere situazioni eccezionali. Possiamo definire tutti questi spazi come “case”, anche se non tutti lo sono davvero, perché in breve tempo diventano il luogo familiare e conosciuto del giocatore. Un luogo con i propri segreti, le proprie porte, le proprie zone che si iniziano a conoscere e a vivere proprio come gli spazi delle proprie abitazioni. Ho selezionato alcune di queste “case” da trattare individualmente prima di passare ai due concetti cardine di questa riflessione, che sono quello di “entrata” e di “uscita” come elementi sistemici di questa soluzione ludonarrativa e poi alla correlazione con l’Open World moderno, argomenti nei quali ci addentreremo nella seconda parte di questa riflessione.

VILLA SPENCER

Nel 1996, Resident Evil segna l’affermazione di un genere che avrà una fortuna immensa nella storia del videogioco e che, proprio nel periodo di composizione di questo articolo, sta vivendo una nuova fioritura: il Survival Horror. E proprio con il benvenuto nel mondo dei Survival Horror avviene l’ingresso in una delle ville più famose dei videogiochi, Villa Spencer.

Benvenuti nel mondo dei Survival Horror.

Questa villa, costruita dall’architetto George Trevor per conto di Ozwald E. Spencer, ricercatore e proprietario dell’azienda farmaceutica Umbrella Inc. è soltanto il paravento, il velo di Maya che nasconde i laboratori per gli esperimenti con le B.O.W. della stessa Umbrella. Gli sventurati Jill Valentine e Chris Redfield, protagonisti del primo episodio della saga, si ritrovano a vagare per questa villa immensa, ormai popolata da zombie e creature ben peggiori alla ricerca del resto della squadra dispersa e della verità su quanto accaduto in quel luogo. Per riuscire nell’impresa dovranno risolvere misteriosi puzzle e trovare e combinare chiavi e marchingegni per aprire passaggi segreti via via più folli.

L’esperienza acquisisce forza proprio dalla sensazione che tutta la villa sia avvolta nel mistero e piena di segreti da scoprire. In breve tempo il giocatore memorizza tutti i piani e tutti i percorsi e scorciatoie che collegano le varie parti dell’abitazione, riconoscendole sia cromaticamente che per la disposizione delle stanze. Anche quando si esce nel giardino e si esplorano grotte e laboratori sottostanti si ha sempre la sensazione di trovarsi nel medesimo luogo, lì dove tutto ciò che avviene è verosimile che avvenga, come salvare la partita con le macchine da scrivere e i nastri d’inchiostro di cui l’edificio è ricolmo. Dunque non sono solo gli zombie e le altre terribili creature che incontriamo a produrre e veicolare la sensazione di terrore ma principalmente il trovarsi all’interno di un “luogo altro”, separato dalla realtà, dove cose inconcepibili possono accadere e si è sempre esposti allo straordinario e all’incredibile.

STAZIONE DI POLIZIA DI RACCOON CITY

Non ci sarebbe bisogno di inserire qui la stazione di polizia di Raccoon City di Resident Evil 2 se essa non fosse la realizzazione di un ulteriore step concettuale, compiuto dagli sviluppatori, rispetto a Villa Spencer. Tutto ciò che abbiamo detto sulla casa del primo episodio rimane valido anche per questo strano museo riconvertito a quartier generale della polizia nel 1969.

Peccato la versione del Remake non colpisca allo stesso modo.

Come nel caso di Villa Spencer, anche in Resident Evil 2 il luogo è localizzato nella realtà e i nostri due protagonisti, Leon e Claire, vi arrivano dall’esterno, entrando in un luogo che sembra stagliarsi, solo e isolato dal resto. A confermare questa idea c’è il fatto che non è possibile, una volta arrivati da un ingresso laterale, di fronte alla facciata della stazione, vedere cosa c’è oltre il grande cancello che ne costituisce l’ingresso principale. Ribattezzato, poco dopo l’uscita, “cancello fantasma”, le sue porte d’acciaio precludono ormai la vista all’esterno, segno che si è giunto effettivamente nel “luogo” e non si può tornare indietro. Proprio il suo essere stato un museo, un edificio dedicato all’arte e per essa costruito, ne spiega il fascino.

LA VASTITÀ DELLA STAZIONE DI POLIZIA CI SPINGE A RENDERCI CONTO DELLA NOSTRA PICCOLEZZA, RICORDANDO IL CONCETTO KANTIANO DI SUBLIME

Per comprenderlo appieno, dobbiamo fare un passo indietro e introdurre il concetto di Sublime secondo il filosofo tedesco Immanuel Kant. Il Sublime è un disaccordo che si origina tra il soggetto che immagina la realtà e l’intelletto che la comprende. In particolare si origina quando la natura dà prova della sua superiore e infinita grandezza nei confronti dell’uomo – Sublime Matematico – e della sua incredibile forza e potenza – Sublime Dinamico. Soprattutto dai Romantici il Sublime è stato collegato a un certo tipo di sentimento del terrore se non proprio come suo diretto corrispettivo, anche se concepito con alcune variazioni rispetto all’idea kantiana. Non è un caso che la riscoperta di un gusto gotico avvenga proprio durante il periodo del Romanticismo e che Resident Evil 2 faccia sfoggio di una colonna sonora lirica e aulica da cattedrale medievale, che ben si associa all’architettura del luogo. Nella Stazione di Polizia troviamo entrambe le tipologie di sublime. Innanzitutto il luogo è molto più grande dei nostri protagonisti, con una soffitto che si innalza verso l’alto per alcuni piani e un’estensione generale spaventosa. Inoltre, le forze del male che lo abitano e che possiamo sentire come suoni distanti, tonfi e movimenti lenti, producono quell’idea di piccolezza dell’uomo, non solo di fronte allo scenario, ma anche rispetto alle potenza di ciò che vive all’interno. È un peccato che Resident Evil 2 Remake nel 2019 scelga di ridimensionare il rapporto uomo/edificio riducendolo sicuramente a un aspetto più realistico e verosimile ma depotenziando fortemente l’aspetto Sublime che tanto aveva contribuito al fascino di uno dei capitoli più amati dell’intera saga.

SHADOW MOSES

Il discorso riguardo l’isola di Shadow Moses nel gruppo di Isole Fox in Alaska è diverso da quelli esposti in precedenza, non solo per il fatto che evidentemente non ci troviamo di fronte a degli edifici ma ad un’intera base militare, ma anche per la maniera specifica con cui il concetto di “luogo-altro” viene veicolato in Metal Gear Solid.

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I feel quelli potenti.

Shadow Moses è una base per lo stoccaggio di testate nucleari ormai in disuso nella quale però un certo tipo di esperimenti e test militari vengono ancora svolti, L’obiettivo del nostro protagonista Solid Snake è infiltrarsi nella base e sventare il piano del gruppo terroristico Next Generation di lanciare una bomba nucleare, verificando che siano davvero in grado di farlo. La peculiarità e la forza dell’ambientazione è veicolata soprattutto dal suo essere immersa nella neve e nel buio.

MENTRE STRISCIAMO PER I CONDOTTI DI SHADOW MOSES, POSSIAMO CONTARE SOLO SU NOI STESSI

Oltre la base sembra esserci il nulla, come se tutto ciò che deve svolgersi, la salvezza dell’umanità o di parte di essa e del nostro protagonista passi attraverso quel luogo e solo e soltanto attraverso esso. Ma è un luogo oscuro, pericoloso e terribilmente freddo e inospitale. Tutto questo contribuisce alla sensazione di dover sopravvivere a tutti i costi, contando solo e soltanto su noi stessi. Mentre strisciamo nei condotti di aerazione le tubature gocciolano, il metallo sfrigola ma non dobbiamo farci scoprire. Tutto il gioco è suddiviso in livelli, in piani e zone che si ottengono sostanzialmente come ricompensa nel completamento degli obiettivi. La ricompensa è la possibilità stessa di potersi addentrare ancora di più nella base, di capire quali altri segreti terribili e complessi ospiterà. Un certo grado di Sublime kantiano, come appare ora evidente, è presente anche qui. Anche in questo caso, gli eventi strani e meravigliosi che avvengono sembrano essere perfettamente contestualizzati e ipotizzabili. Letture della mente, Ninja Cyborg ossessionati dal passato e gemelli di luce e ombra, bene e male. Tutto qui ha perfettamente senso, perché il giocatore sa che può avvenire solo lì, in modo che alla fine possa dire “Questo è ciò che è Shadow Moses, lei era così!”

RAPTURE

Infine, ma ce ne sarebbero sicuramente altre (come il castello di ICO, o un’altra “casa” che mi terrò per la prossima parte!), vorrei parlare della città sottomarina di Rapture, fondata da Andrew Ryan nel 1946 come luogo-altro, lontano dalla società post bellica piena di contraddizioni politiche, religiose e sociali.

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Sono Andrew Ryan e voglio porvi una domanda: un uomo non ha diritto al sudore della propria fronte? No! Dice l’uomo di Washington, appartiene ai poveri. No! Dice l’uomo in Vaticano, appartiene a Dio. No! Dice l’uomo di Mosca, appartiene a tutti. Io rifiuto queste risposte, piuttosto scelgo qualcosa di diverso, scelgo l’impossibile, scelgo… Rapture!

La principale differenza con gli altri luoghi presentati, anche Shadow Moses, è la sua grandezza: un’intera città con palazzi e quartieri è certamente più grande anche della base missilistica di Metal Gear Solid e a un primo sguardo sarebbe difficile da classificare come “casa”. Tuttavia il fatto di trovarsi sotto l’oceano in spazi che per forza di cose sono “chiusi” obbliga il giocatore a viverla come un’unica, gigantesca abitazione, come una grandissima nave che all’interno presenta spazi anche molto diversi fra loro. Lo stile Art Deco utilizzato dagli architetti di Andrew Ryan in ogni ambiente ne sviluppano anche connotati particolarissimi e dettagliati. Proprio come Villa Spencer anche qui in breve tempo saremo in grado di riconoscere e distinguere i quartieri come fossero zone precise della nostra abitazione, diventati ormai familiari.

RAPTURE, LA CITTÀ IN FONDO ALL’OCEANO, È LUOGO-ALTRO PER ECCELLENZA: LA SUA ESTRANEITÀ NON È SOLO GEOGRAFICA, MA ANCHE CONTENUTISTICA

Ancora una volta, anche a Rapture, l’estraneità dalla realtà non è soltanto geografica o architettonica ma anche contenutistica. La società della città sottomarina si è disgregata in seguito all’uso spregiudicato dell’ADAM e dei Plasmidi da esso ricavati, in grado di donare poteri particolari a chi ne fa uso ma con una capacità ricombinante talmente alta da trasformare per sempre le persone in mostri bisognosi della propria droga. Il fascino incredibile esercitato da Rapture si deve anche alla sua forza di mostrare e analizzare uno spaccato sociologico della realtà di quegli anni, riuscendo a farlo vivere come unicum distaccato e mai davvero adiacente alla situazione storica in cui è ambientato. Rapture è un luogo-altro meraviglioso, raggiungibile solo e soltanto grazie a un evento straordinario. Ma sono tutti eventi straordinari quelli che permettono di arrivare nei luoghi citati e, come dice Elizabeth di Bioshock Infinite: “C’è sempre un faro”.

C’è sempre un uomo e c’è sempre un faro…

Fin qui ho selezionato solo alcuni dei luoghi-altri più iconici e caratteristici della storia del videogioco per mostrare come, nonostante si tratti di titoli di genere diverso, la struttura concettuale alla base della scelta di ambientare l’avventura in uno spazio chiuso sia la stessa. Nella seconda parte dell’articolo, che troverete settimana prossima su queste pagine, affronteremo due concetti fondamentali e che accomunano tutte le “case”: quelli di “ingresso” e “uscita”. Chiuderemo poi con un riferimento alla modernità di cui accennavo a inizio articolo: l’iconica Oldest House di Control.


Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.

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