Ultimamente mi è capitato di ragionare, parlando con altri habitué del videogioco, sull’importanza dell’immedesimazione, dell’interpretazione e delle differenze sostanziali che questi due modi di porsi e di intendere possono portare all’esperienza. Affezionarsi a un personaggio, prendere a cuore la sua missione, sentire un dovere nei confronti suoi e dei suoi compagni virtuali. La vendetta di Max Payne, il sogno americano dell’immigrato Nico Bellic, la redenzione dell’ultimo Kratos, la disperazione cieca di Ellie.
Ma anche creare il proprio personaggio, replicare sé stessi o crearsi personalità totalmente nuove; un altro sesso, un nuovo aspetto, un’avventura sartoriale dalle molteplici possibilità, abbracciando una libertà che magari nella vita di tutti i giorni tendiamo a reprimere per sentirci più integrati. Scelte di design e scelte personali che si intrecciano, diramandosi in esperienze clamorose che negli ultimi 20 anni si sono evolute a una velocità impressionante, portando la narrativa videoludica verso nuove vette e dando vita a viaggi indimenticabili in luoghi impossibili.
ENJOY THE SILENCE
L’eroe silenzioso come protagonista è una soluzione di design che ormai conosciamo bene da anni, oltre che un baluardo dell’immedesimazione. Un guscio da riempire con il proprio ego, che spesso si limita a fare qualche gesto, poche espressioni e ancora più raramente sporadiche linee di dialogo. Link in Zelda ne è l’esempio primordiale perfetto, un “collegamento” appunto, tra giocatore e avatar, che diventerà negli anni una consuetudine soprattutto in RPG ed immersive sim di grandissimo successo come i The Elder Scrolls, Half-Life, Dark Souls, Fallout; una soluzione perfetta per opere non lineari, con forte senso di progressione e dalla durata considerevole, dove giocare di ruolo nella maniera più pura, immergersi nell’avventura, compiere scelte morali e perdersi nel mondo sono il punto focale del gameplay, spesso introdotte da un editor per creare il proprio alter ego, personalizzandone tanto l’aspetto quanto le abilità (con soluzioni ibride come in Mass Effect, personaggio scritto ma i cui connotati sono variabili).
L’illusione della libertà, che si materializza tra le mani del giocatore in molti modi, dal procedere col proprio ritmo a non avere una sola missione da eseguire, dall’avere molti modi per portare a termine i propri incarichi alla varietà di approcci e build per il proprio avatar, seguendo una linea narrativa presente e chiara ma con elementi spesso emergenti, che salgono a galla solo percorrendo le vie meno battute. La visuale in soggettiva è un’altra caratteristica di game design che spesso si accompagna a titoli di questo tipo, “immersivi” per indole. Il perché è ovvio, infatti mi voglio soffermare più che altro su una corrente spesso divisiva che, soprattutto nel decennio scorso, diede vita a casi videoludici straordinari.
L’illusione della libertà, che si materializza tra le mani del giocatore in molti modi
Visto che poche righe fa ho citato The Elder Scrolls, grande esempio di immedesimazione, si potrebbe fare un parallelo fantasy con The Witcher, serie invece fortemente interpretativa (e che infatti predilige la terza persona), con un protagonista caratterizzato nella personalità, nei pensieri, nel suo modo di interagire con gli altri. Chiaramente il terzo capitolo è stato quello che ha portato alle estreme conseguenze il lavoro di sceneggiatura e anche quello in cui, grazie al mondo di gioco straordinariamente vivo e a singole situazioni scritte da dio, ci si sente più attori che sé stessi. C’è libertà di azione, il mondo dà aria e spazi al giocatore, però i paletti, seppur larghi, sono chiaramente posti per indicare una via, seguire un percorso costantemente in crescendo; non è la propria avventura, è senza dubbio quella di Geralt di Rivia, a noi il compito di guidarlo verso il proprio destino. Anche le stesse scelte morali poste all’imbocco dei bivi narrativi sono una soluzione illusoria che dà una sensazione di libertà a conti fatti limitata (e ci sta, non è assolutamente un difetto), tipica dei giochi di ruolo moderni e sdoganata, tra gli altri, da Bioware. Più i paletti si restringono, più il ruolo del giocatore si fa sempre meno sfumato, trasformando il gameplay in performance.
ATTORI VIRTUALI
Prendiamo Uncharted, per esempio, figlio di Indiana Jones e Tomb Raider nonché vera e propria cinematic adventure con tendenze da sparatutto dove il giocatore, trascinato nel gorgo dell’azione, trascende il suo ruolo per diventare stuntman, seguendo il ritmo della sceneggiatura, subendolo, ogni checkpoint una scena, ogni game over un altro ciak fino all’esecuzione perfetta, tra sparatorie, inseguimenti e puro atletismo virtuale. L’interpretazione, in questo caso, è abbastanza lineare; c’è un obiettivo, ci sono dei cattivi e c’è soprattutto un protagonista che è facile prendere in simpatia (poi i gusti sono gusti, chiaro).
Il vero sforzo interpretativo lo si deve fare quando entra in gioco l’ambiguità narrativa, e Naughty Dog mi viene incontro anche in questo caso, naturalmente con The Last of Us. Il gameplay, spogliato del racconto, è estremamente canonico e traccia un percorso praticamente parallelo con Uncharted, sono però le motivazioni dei suoi protagonisti a cambiare totalmente il significato di certe consuetudini di design. Quando Joel entra armi in pugno in quell’ospedale, sappiamo bene quello che stiamo andando a fare e non abbiamo alcun potere di cambiare il copione. In Part II questo contrasto tra azione imposta al giocatore e moralità è ancora più accentuata e “dolorosa”, con una Ellie accecata dalla vendetta che è letteralmente pronta a tutto per raggiungere il suo obiettivo.
In Part II questo contrasto tra azione imposta al giocatore e moralità è ancora più accentuata e “dolorosa”
Anche la tecnica ricopre un ruolo fondamentale in questo, perché oggi, in The Last of Us come in molti altri titoli, quelle che fino a 10-15 anni fa sarebbero state cut-scene oggi sono fasi di gameplay, facendo pendere il bilanciamento sempre più verso il ruolo di attori che di spettatori. Quella dell’opera Naughty Dog è una violenza che ha poco a che vedere con quella “giocosa” di un GTA giocato in cazzeggio, mai caricaturale come quella di un God of War e molto più intima di quella che si trova in titoli a sfondo militare come Call of Duty o Battlefield. Questo fa sicuramente la differenza e l’interattività amplifica il messaggio rendendo l’interpretazione sfiancante, centrando il bersaglio e portando l’esperienza verso nuovi orizzonti emotivi; passando dallo “sparo per uccidere il nemico” al “perché sto sparando?”, come nello spiazzante finale di Hotline Miami. “Do you like hurting other people?”. C’è anche chi riesce a fare questo in un contesto assolutamente non lineare, come Rockstar con Red Dead Redemption 2, dove la vita di Arthur Morgan sembra essere sempre scritta e avere sempre senso, anche quando si gioca in totale libertà, disinteressati alle missioni principali; un risultato francamente incredibile e a mio parere non ancora eguagliato.
ATLETI DA DIVANO
Tra immedesimazione e interpretazione, su un campo di mezzo, altrettanto importante, si inseriscono le esperienze multigiocatore online. Il paragone più naturale è quello con lo sport (gli stessi titoli a sfondo bellico, negli obiettivi, sono molto sportivi tendenzialmente), dove al centro di tutto vive la performance, non una performance scritta e diretta dagli sviluppatori, come in un’avventura single player, bensì la propria, mostrata attraverso il proprio avatar-atleta. Lasciamo da parte il discorso professionistico e l’eSport in generale, l’esperienza multiplayer del giocatore tipo è un po’ come il calcetto del giovedì sera in cui il professionista lo si imita al meglio delle proprie possibilità.
l’esperienza multiplayer del giocatore tipo è un po’ come il calcetto del giovedì sera in cui il professionista lo si imita al meglio delle proprie possibilità
Tre modi di intendere il videogioco che sono, a conti fatti, quelli su cui il mercato si sta concentrando, tra sconfinati open world ricchi di attività, game as a service e titoli single player ad altissimo budget e che rispondono a necessità diverse quanto ugualmente diffuse. Questo porta le software house che non riescono a tenere il passo verso una pericolosa stagnazione (l’esempio di Ubisoft è sotto gli occhi di tutti) e un costante inseguimento di quei pochi che, invece, riescono a inventare e reinventare concetti e tendenze, almeno finché il pubblico, repentinamente com’è solito fare, non cambierà ancora abitudini, stile di gioco ed emozioni da cercare, trovare e consumare come una fiamma che divora l’ossigeno.