Verso la fine degli anni ’90 il mercato videoludico stava vivendo un boom importante a livello di vendite, specialmente perché nelle case di molti videogiocatori era entrata con prepotenza la prima console da tavolo confezionata in casa Sony, chiamata PSX. In pochissimo tempo una moltitudine di offerte ha cominciato a susseguirsi senza sosta lasciandoci spesso estasiati, vuoi per il 3D che sembrava farci sembrare tutto più vivido e reale, vuoi anche per una sovrabbondanza di storie capaci di tenerti incollato davanti allo schermo in compagnia di amici e parenti.
Titoli come Resident Evil, Crash Bandicoot, Gran Turismo e moltissimi altri hanno inevitabilmente accompagnato la nostra adolescenza tra un calcio al pallone e uno schiaffo su Tekken, ricordandoci che oltre la nostra immaginazione c’erano già moltissimi sviluppatori pronti a creare qualcosa che anche il più brillante di noi avrebbe fatto difficoltà a immaginare.
GENESI DI UN MITO
Fatto sta che all’inizio degli anni 2000, quando il mio unico pensiero da quattordicenne era combattere l’apparecchio per i denti, in casa Capcom si decise di affidare lo sviluppo dell’ennesimo sequel di Resident Evil – precisamente il quarto capitolo – a Hideki Kamiya, giovane game designer che aveva già lavorato a stretto contatto con la saga. Nessuno poteva aspettarsi che quest’ultimo, forte del suo estro, potesse prendere il concept lento e schematico di un gioco come Resident Evil e rivoluzionarlo da cima a fondo, cambiandogli l’anima così profondamente al punto di trasformarlo in un qualcosa di totalmente estraneo al franchise. Shinji Mikami rimase di stucco visionando i lavori in corso, decidendo così di far lavorare il team guidato da Kamiya verso una direzione diversa, con l’intenzione di fargli produrre una nuova IP indipendente dalla serie di Resident Evil. Inutile dire che la gestazione creativa, anche solo a livello di spunti e ispirazione, ancora oggi si conferma totalmente geniale, se non altro perché faceva riferimento alla Divina Commedia nostrana.
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UN GAMEPLAY CHE SPACCA!
Ma perché Devil May Cry aveva colpito il cuore di molti? Perché era uno dei primi action in terza persona che sapeva bilanciare perfettamente il suo essere frenetico e responsivo con una fantastica ambientazione, capace di ricreare un ambiente dal design gotico veramente accattivante. Aggiungici uno sviluppo dei livelli in verticale, qualche enigma, un po’ di sano backtracking giustificato dalla necessità di ottenere gli oggetti necessari al superamento di determinate aree e quella cavolo di musica heavy metal che sapeva enfatizzare ogni combattimento come nessun altro prodotto prima di lui. Tra l’altro uno degli aspetti più interessanti della produzione riguarda anche l’inserimento di una meccanica di gioco nata per caso: colpire i nemici mantenendoli in aria. Durante una sessione di prova di Onimusha: Warlords, Kamiya scoprì questa meccanica emersa casualmente per colpa di un bug, decidendo così di tradurla in dinamica di gameplay per il suo Devil May Cry. Mettici poi un sistema di valutazione del combattimento con parametri verbali che spaziavano dal Dull allo Stylish e il gioco era bello che fatto.
uno dei primi action in terza persona che sapeva bilanciare perfettamente il suo essere frenetico e responsivo con una fantastica ambientazione