Sorge sempre una domanda, quando si parla di videogiochi: “Quante strade deve percorrere un uomo prima di essere chiamato uomo?”, chiedeva Bob Dylan. “42”, rispondeva ironicamente Douglas Adams in Guida Galattica per Autostoppisti. E se invece la risposta, quella vera, fosse nei videogiochi?
Prigionieri di un sistema binario che ammette solo due valori, siamo abituati a ragionare per contesti opposti, nei videogiochi. Zero o uno. Vero o falso. Ha o Ka. Viaggio o destinazione. È un errore, una visione parziale che non guarda all’insieme, che non accetta l’idea che siano gli zeri a riempire di significato gli uno e viceversa, che non potrebbe esistere il vero senza qualcosa di falso. Un viaggio ha senso grazie alla sua destinazione, perché è quella a fissare un obiettivo da raggiungere, il MacGuffin che funge da metronomo per le esperienze durante il percorso. Una destinazione può essere tale solo se prima è stato compiuto un viaggio verso di questa, altrimenti sarebbe solo un posto, statico, prigioniero delle sue coodinate latitudinali e longitudinali.
Il videogioco spesso e volentieri sposa il viaggio per questioni di moda e di marketing, un modo facilone di apparire seducente
THERE’S NO PRETENDING
Ridotto al suo essenziale Death Stranding è Super Mario Bros. Il viaggio non è da sinistra verso destra ma da est verso ovest, ma per il resto le regole di ingaggio sono le stesse. La differenza tra l’idraulico di Miyamoto e il corriere di Kojima è il significato che assume il viaggio. L’unico sforzo da fare per essere Mario è tenere premuto B per correre, il resto poi è tutto level design ossessivo su carta millimetrata.
Ogni passo ha un peso, invece, quando siamo Sam Porter Bridges
Senza una Amelie da raggiungere in un altro castello Sam non si sarebbe mai incamminato. Le prime ore di gioco servono proprio a convincerlo. Ogni passo consuma gli stivali e aggredisce la barra della stamina, ma avvicina Sam al suo ruolo messianico, al suo titolo di “colui che consegna”. Allo stesso tempo è il viaggio a rendere Death Stranding – con buona pace di chi ancora parla di Bartolini Simulator – un videogioco vero, capace di rilasciare endorfine quando si porta a termine una consegna guadagnando punti e quando si posiziona in modo furbo una struttura che poi viene utilizzata dagli altri giocatori ospitati sullo stesso server. Death Stranding è un Facebook dove ogni post è pubblica utilità, dove le bacheche dei contatti non possono essere intasate da tossicità ma soltanto dalle risposte di altri Sam che non possiamo vedere, ma che urlano incoraggiamenti quando cliccando sul touchpad cerchiamo un rinforzo positivo o semplicemente di spezzare il silenzio imposto da questa solitudine by design. E anche la colonna sonora non originale del gioco assume un senso proprio grazie a viaggio e destinazione. Lungo la strada a dominare è l’assenza, spazi enormi senza check-list e micro attività da portare a termine, nient’altro che i rumori di una natura che dopo il Death Stranding si è riappropriata del mondo.
Lungo la strada a dominare è l’assenza, spazi enormi senza check-list e micro attività da portare a termine
DOES WHATEVER A SPIDER CAN
Siamo stati tutti Peter Parker a un certo punto delle nostre vite, soprattutto nei videogiochi dedicati a Spider-Man. Abbiamo avuto il problema di dover pagare l’affitto, di trovare un equlibrio tra quello che vogliamo e quello che dobbiamo fare, giocolieri in un numero che andando avanti con l’età ha una difficoltà crescente. Siamo stati tutti Peter Parker, i più giovani forse sono stati Miles Morales, ma è per quello che giocando a Spider-Man 2 nel 2004 ci siamo sentiti a nostro agio oscillando tra i grattacieli di Manhattan. Era la prima volta in cui nei panni dell’Uomo Ragno c’era tutta quella libertà, per quanto possibile anche quel realismo visto che le ragnatele non si attaccavano più al cielo in modo implausibile ma avevano bisogno di palazzi e lampioni. Quasi vent’anni dopo è la stessa cosa: non è più il tie-in di una pellicola cinematografica ma uno dei first-party di punta dei PlayStation Studios, ma la sensazione che si prova indossando quel costume dall’altra parte dello schermo è la stessa.
Non faresti mai a meno della New York di Insomniac, pensata a uso e consumo del viaggio in barba ad un viaggio rapido che grazie all’SSD di PS5 adesso è istantaneo. È una New York da scoprire, che non viene coperta subito dagli indicatori delle attività secondarie proprio per incentivarne la scoperta, al limite ci si torna dopo se quando si scopre un punto di interesse si è impegnati in dell’altro. Una New York dove i punti di interesse stessi arrivano man mano che si prosegue con la trama principale, lasciando respiro alla città e chiedendo al giocatore – se proprio vuole utilizzarlo – di sbloccare il viaggio rapido quartiere dopo quartiere semplicemente giocando.
Una New York dove i punti di interesse stessi arrivano man mano che si prosegue con la trama principale
A HORSE WITH NO NAME NEI VIDEOGIOCHI
Nel deserto puoi ricordare il tuo nome, perché non c’è nessuno a causarti dolore. Nel caso di Elden Ring a prima vista sembra una frase impropria, quanto di più lontano possibile ci possa essere dai contenuti presenti su disco. Eppure in un certo senso è il fondamento dell’esperienza di gioco: nel deserto, nelle aree open world che fungono da hub tra un Legacy Dungeon e l’altro, corri meno pericoli. Non è che non ci sia nessuno che voglia causarti dolore, anzi, ma sono pericoli che puoi avvistare da lontano e da cui puoi fuggire. Spesso pericoli dove puoi chiedere aiuto, evocando uno Spirito o qualche altro Senzaluce. All’interno dei dungeon è diverso, ci sono trappole e situazioni da cui non sempre puoi scappare. Ci sono i boss, e per quanto i più spietati siano opzionali è proprio all’interno di queste strutture che vivono, lì dove non hai nemmeno il tuo cavallo – che a differenza del brano di America un nome ce l’ha – a disposizione.
L’Open World è salvifico, in Elden Ring. Una zona di comfort dove si mantiene il controllo della situazione, la si sfrutta per il power leveling rendendo poi più semplici le situazioni difficili nei Legacy Dungeon. Lo dice anche il loro nome, “legacy” significa “eredità”, ed è lì che Elden Ring eredita l’anima degli altri Souls. Gli spazi aperte invece sono un’enorme palestra, che vive quasi di vita propria attraverso le sue routine scriptate. Ci saranno sempre degli NPC che invocano il nome di Agheel nei pressi di quel falò a Limgrave finendo per perdere la vita, finché il drago alla fine non verrà abbattuto.
Esperienze di viaggi che esistono perché esiste la loro meta