L’evocatore, quello che sta dietro ai picchioni, quello che dipende dal mana e/o dai punti magici di turno. Che succede quando prova a essere protagonista?
Ah, le riflessioni che fai quando esci dalla tua zona di comfort. Nel mio caso il comfort non sono gli action ipercinetici, credo di essere semplicemente l’anti-target di questo tipo di produzioni, Benché anche io mi possa gasare con belle coreografie di combattimento, mi piace quando restano un po’ credibili. Magia ok, poteri psichici/magici ok, schivare (un po’) di pallottole ok, Gray Fox ok, Raiden… Raiden non è ok, per me. Inizia a farle un po’ troppo grosse. Quando perdo la misura di quello che il personaggio può o non può fare, quando la forza di gravità diventa troppo spesso un’opinione, quando i cattivi o il protagonista incassano botte per mezz’ore e continuano a rialzarsi, io non mi galvanizzo. Al contrario, mi anestetizzo. Se può succedere di tutto, allora non mi importa più.
La classe dell’evocatore non ha avuto tanto palcoscenico come quella del guerriero o del ladro.
Proprio un action ipercinetico mi ha però rivelato qualcosa. Sto parlando di Devil May Cry 5 e della sua new entry nel cast, il tale V. Non un combattente di spada, bensì un evocatore. Un potere così “overpower”, che stando al ragionamento di cui sopra dovrebbe essere sempre più fuori dalle mie corde, appassionate al fragilismo e a giochi che esplorano vulnerabilità, piuttosto che superpoteri. Eppure, proprio con lui sono riuscito a connettermi più di quanto abbia mai fatto con qualsiasi altro personaggio della serie. Ma soprattutto, mi ha portato alla riflessione che l’evocatore, inteso come classe personaggio, non ha mai avuto così tanto palcoscenico come ad esempio il ladro, il guerriero o il mago (e qui ci sarebbe da scrivere un altro articolo a parte). Ancora più raramente è stato il protagonista.

Final Fantasy X indugia molto sulle implicazioni politiche e spirituali di avere umani in diretto contatto con creature potentissime
Eppure è una figura che è un po’ sempre esistita, l’esempio pop per eccellenza è Final Fantasy. L’evocatore è quello fragile, da tenere nelle retrovie mentre ci mette il tempo che ci vuole a consumare mana come un’idrovora, per poi evocare il bestio in questione e godersi il massacro su procura. Ci sono state diverse varianti dell’idea nella serie. Nel quindicesimo capitolo sono entità così potenti che non rispondono proprio alla volontà del protagonista preferendo palesarsi quando gli pare. Nell’ottavo, nono e decimo capitolo sono perno centrale della narrazione. Proprio in FFX finiamo, per la prima volta nella serie, ad averne il controllo diretto, sempre all’interno dell’intramontabile sistema a turni.
Che succede quando un’opera vuole concentrarsi in particolare sull’evocatore, dargli il ruolo di protagonista?
Questa rappresentazione ha funzionato per molti anni e continua a funzionare: proprio l’anno scorso è arrivato per esempio The Thaumaturge, che ne raccoglie l’eredità. Una detective story dark, nella Varsavia del diciannovesimo secolo, il cui protagonista si fa aiutare da qualsiasi gregario disponibile vivo, morto o… via di mezzo che sia. Ma che succede quando un gioco vuole provare a far “sentire” meglio al giocatore questo personaggio più vulnerabile, che preferisce non andare in prima persona a mazzuolare le minacce che gli si parano davanti? Che preferisce mandare avanti qualcuno, o qualcos’altro, su cui ha un certo grado di controllo? Possiamo trovare qualche esempio nei GDR isometrici quali Baldur’s Gate: Dark Alliance 2, ma anche lì manca un po’ di “fisico” del personaggio. Mi vengono però in mente una manciata di opere che meglio di altre hanno tentato di dare, diciamo, un grado di intensità in più.
Chaos Legion, tra riposo e azione
Restando in casa Capcom, nella generazione PS2 ci fu un gioco che all’ombra dei fratelloni Devil May Cry e Onimusha, provò a fare la sua cosa. Con purtroppo, scarso successo. L’intero albero delle abilità di Chaos Legion era basato su incrementare tipo, quantità o qualità di guerrieri astrali che ci avrebbero dato manforte negli scontri. Il gioco ci chiedeva continuamente di scegliere la squadra giusta ad accompagnarci visto che diversi nemici ovviamente chiedevano diverse risorse.
Un esercito di insettoidi che avrebbero provato a soverchiarci con il loro numero avrebbe richiesto la squadra di spadaccini disposti in formazione circolare attorno a noi. Nemici cannonieri avrebbero richiesto un cambio rapido alla squadra di balestrieri, di cui avremmo potuto assistere manualmente la mira. Mix di diversi nemici? Li si manda all’attacco in autonomia, mentre noi andiamo faccia a faccia con i bersagli secondari. Non erano ancora arrivate grandi rivoluzioni di intelligenza artificiale, né eleganti pattern avversari, quindi la difficoltà era data perlopiù dal numero dei nemici e dalla “geometria” dei loro attacchi. Ma tanto bastava a passare un po’ di tempo nel menù, studiare le legioni acquisite e decidere se usarle in formazione attiva (autogestione o potenziante per attacchi principali, essenzialmente) o passiva (in attesa di ordini, fare difesa attorno al protagonista e attaccare solo se provocati).
Chaos Legion venne criticato per una certa passività nel combattimento. Ma non è proprio questo il punto?
Una delle critiche più attive che ricevette il gioco fu che il combat system era poco profondo rispetto ai colleghi e che in alcuni momenti si poteva tranquillamente appoggiare il pad al tavolo e farsi un caffé mentre qualcun altro finiva il lavoro. Critica comprensibile da un lato, ma dall’altro non è proprio questo il punto del personaggio? Oserei dire che, per come si poneva il gioco, meno azione forsennata c’era da parte del giocatore e meglio si stava giocando. Interpretavamo il generale, non la cavalleria.
Va detto però che il gioco non risponde bene alla prova del tempo e che già all’uscita non era il massimo, né in quanto bilanciamento e varietà del game design, né artisticamente parlando. Specie appunto, confrontato ai suoi fratelloni. Comunque, un piccolo esperimento che chissà non abbia ispirato suggestioni su quello che sarebbe poi diventato Astral Chain, progettato da Kamiya dentro Platinum Games e che prevedeva di portarsi al guinzaglio varie entità di supporto.
Folklore, catturiamoli tutti
Uno dei pochi giochi che riuscì a dare un senso al giroscopio del pad Playstation 3 viene dall’ormai chiusa e da molti dimenticata Game Republic, la stessa che se ne uscì al lancio con un… diciamo, onesto action, la cui caratteristica più interessante era colpire i punti deboli del nemico per fare il massimo danno. Ok, a parte i meme su presentazioni discutibili agli ormai trapassati E3, non stiamo parlando di Genji. Con più calma, un paio di anni dopo, ecco arrivare il molto più particolare Folklore. La vicenda inizia con la classica lettera ricevuta da un mittente impossibile… perché è morto anni prima. James Sunderland è entrato nella chat, ma no, non stiamo di colline silenziose stavolta. La lettera è destinata a Ellen Reid, il mittente è la madre e il luogo d’incontro è il bucolico villaggio di Doolin (Lemrick nei primi trailer e nell’edizione giapponese). Parallelamente, l’annoiato redattore per riviste dell’occulto Keats riceve una telefonata che implora aiuto, sempre dal villaggio. Una donna. Nessuna altra informazione. Ma per due menti curiose non servono altre spinte per lanciarsi all’avventura. Una volta arrivati al villaggio, apprendiamo subito e senza particolare sorpresa dei protagonisti, che ospita un accesso a un’altra dimensione. Una dimensione onirica, fiabesca abitata dalle più strane creature.
Creature che in buona parte potremo catturare e usare come alleate. Le suddette costuiranno le intere capacità offensive e difensive dei nostri personaggi, che sì, funzionalmente è come avere armi e scudi dai diversi effetti. Le evocazioni dureranno letteralmente un secondo, abbastanza da vibrare il loro attacco per poi sparire e riapparire subito dopo se possiamo fargli fare una combo, oppure cedere il posto a un altro nostro sottoposto se vogliamo fare qualcos’altro. Folklore si presentava però con due particolarità, riguardo ai suoi mostriciattoli.
Folklore metteva finalmente alla prova il giroscopio del pad PS3.
La prima è che avremmo avuto l’assoluto controllo del moveset, potendo assegnare ciascuno dei pulsanti frontali a differenti folk e potendo così progettare al dettaglio lo stile di combattimento dei nostro personaggi. Che a loro volta avranno differenti inclinazioni, quindi lo stesso folk potrebbe comportarsi diversamente se evocato da Keats (attacchi tendenzialmente più aggressivi) piuttosto che da Ellen (danni leggeri, più inclini a infliggere status alterati). Ma prima ancora di pensare a questo avremmo dovuto appunto catturarli visto che di per sé non sono affatto d’accordo nel seguirci. Dopo averli sfiancati a sufficienza infatti, avremmo dovuto assorbirne lo spirito, come divoratori di anime. Un movimento del pad verso il basso li avrebbe “artigliati”. A quel punto, un altro movimento in direzione opposta li avrebbe “estratti” dal corpo e assorbiti dal nostro personaggio. Differenti nemici avrebbero richiesto differenti movimenti e tempismo, mettendo alla prova il giroscopio del pad in tutte le direzioni.
A margine, purtroppo, questa dipendenza dal pad rende il gioco difficilmente proponibile su PC anche se Sony fosse interessata a portarlo (ad oggi non sembra nemmeno intenzionata a rimasterizzarlo o riproporlo in qualche modo sulle proprie console, comunque). Uno dei tanti giochi vittime della non-preservazione digitale. Purtroppo un discorso che, a seconda dello sviluppatore/produttore coinvolto, può spaziare dalla buona volontà di prendersi cura anche di opere di altri (vedi ad esempio Nightdive Studios, Forever Entertainment, GOG) alla più assoluta inesistenza. Un gran peccato, perché non c’è niente che assomigli alla somma delle parti di Folklore. L’ho cercata, credetemi. Posso solo trovare “giochi di consolazione” ispirati alle fiabe che hanno qualche adiacenza artistica, ma sono (giustamente) altri progetti che fanno altre cose.
Devil May Cry V… tutto a posto, compare?
Però sinora abbiamo parlato di personaggi “fighi” che rispondono a dei design accattivanti e sono sempre pronti all’azione. V è stato un po’ differente. Risponde comunque a un aspetto cool e al gameplay tipico di DMC con la sua ricerca del punteggio alto, però il “corpo” del personaggio iniziava a essere diverso. V può soltanto restare nelle retrovie e delegare ai suoi famigli il compito di ammorbidire gli avversari. Delega che non dà sempre il totale controllo di cosa faranno. Il combat system è precisissimo come sempre e i fedeli risponderanno sempre a chiamata. Ma in assenza di ordini se ne andranno un po’ in giro per i fatti loro. Sempre restando nei paraggi di V, ma senza essere estensioni dirette della sua mente. Griffon addirittura si propone come spalla comica, commentando in modo nervoso avversari potenti e suggerendo che a volte non c’è nulla di male in una ritirata strategica. Proprio il pennuto infatti, potrà trasportare il nostro protagonista darkettone in salvo se la situazione dovesse diventare troppo concitata.
“Tipo il doppio salto degli altri, dici?” Sì… negli effetti sì, più o meno… Ma è differente dover chiamare aiuto piuttosto che saltare via dalla mischia con le proprie gambe, magari appoggiandosi a uno scalino invisibile per fare il proverbiale doppio salto carpiato. V è un personaggio che non supera il test d’ingresso atletico dei personaggi di Devil May Cry, nemmeno quelli del suo reboot-reimagining-requellochevolete di Ninja Theory. Non muove spadoni a due mani con disinvoltura, non corre sui muri, non bareggia la gravità (non da solo, almeno), non sposta tonnellate.
V non supera il test d’ingresso atletico del cast di Devil May Cry.
Al contrario, il ragazzo sta male. È emaciato, la postura non è proprio a schiena dritta, si guarda un po’ attorno piuttosto che entrare in scena di corsa. È motivato, eppure con il fiatone. V richiama la forza di cui a ha bisogno leggendo citazioni dal libro che si porta appresso, venendo a volte sbeffeggiato dai suoi famigli per questo. Lui non è un evocatore per scelta… o meglio, a seconda di come vogliamo leggere la sua storia forse anche sì, ma il punto è che se provasse ad andare a muso duro contro i cattivi le prenderebbe di santa ragione. Ha bisogno dei suoi cuccioloni per sopravvivere, cuccioloni con cui bisogna trovare un’ottima simbiosi a discapito delle differenze di specie e del non averne proprio l’assoluto controllo.
Purtroppo, tanto il personaggio quanto l’idea che si porta appresso inizia e finisce in Devil May Cry V, ma mi auguro che qualcuno prima o poi ne riprenda il semino che, pur nella cornice di action ipercinetico, ha provato a piantare: evocazioni che non sono una diretta estensione del protagonista, non sono l’equivalente funzionale di uno stile di combattimento già esistente. Ma che sono invece creature “altre”, di un altro universo, con altre abilità. Il cui aiuto non è scontato, la comunicazione non è scontata e che questo si traduca anche nel gameplay oltre che nella narrativa. C’è qualcosa su cui lavorare qui, ne sono sicuro. Qualcosa che non abbiamo ancora visto.