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Street Fighter V

PC PS4

Le origini di Street Fighter – Speciale

Dimenticate per un attimo il gigante odierno: agli inizi della sua avventura arcade, Capcom era una creatura incerta e vulnerabile. La software house aveva affittato come sede operativa il primo, fatiscente piano di un palazzo composto da due sole stanze, di cui una utilizzata per gli allenamenti indoor delle squadre di baseball! Solo otto sviluppatori costituivano l’organico, divisi equamente per lavorare su Vulgus e SonSon, i primi giochi che avrebbero spianato la strada a un’avventura che continua senza incertezze fino ai giorni nostri. Il clima sperimentale viene riassunto in una vecchia intervista a Yoshiki Okamoto, che ricorda come lui e Tokuro Fujiwara si fossero scambiati i progetti inizialmente assegnati con risultati bizzarri, vedi la contaminazione di elementi tipici degli sparatutto in un gioco di piattaforme come SonSon. Anche il seguente Exed Exes (1985) non era riuscito a fare il botto, adombrato dal successo del coloratissimo TwinBee di Konami, che si presenta nei Game Center dopo appena un mese dal debutto del rivale.

Durante lo stesso anno, però, Makaimura (Ghosts ’n Goblins) avrebbe finalmente donato a Capcom un successo degno di tale nome. Tuttavia, le idee dovevano continuare a manifestarsi, poiché – parafrasando l’ipotesi di Gaia – l’ecosistema a gettone è simile a una creatura organica, dove silicio, segatura e sistemi idraulici sono intrecciati e in costante evoluzione. Letteralmente. Lo stesso anno sarebbero infatti arrivati anche Hang-On e Space Harrier rendendo tutti i giochi che li circondavano immediatamente obsoleti e depredando gli inermi giocatori dei loro sudati risparmi, facendo leva su grafica e cabinati pazzeschi, ostentati a mo’ di coda di pavone.

ROUND ONE

Takashi Nishiyama, un giovanotto desideroso di diventare giornalista, si ritrovò alla corte di Irem quasi per caso, alla ricerca di un lavoro part-time. Già che c’era, lasciò da quelle parti il suo “modesto” contributo scrivendo Moon Patrol, un titolo a scorrimento orizzontale che unisce elementi di sparatutto e giochi di piattaforme con un equilibrio squisito e che ammaliò gli astanti nel 1983 grazie ad un’intuizione chiamata scorrimento parallattico. Un’idea mica male!Street Fighter immagine Speciale AtariCon il successivo Spartan X (1984) avrebbe fatto anche meglio, ponendo le basi per i giochi di combattimento a scorrimento orizzontale. Conosciuto in occidente come Kung-Fu Master, Spartan X vanta una genesi curiosa: vagamente ispirato alla commedia con Jackie Chan “Wheels on Meals” (“Il Mistero del Conte Lobos” qui da noi e, appunto, “Spartan X” in Giappone), Kung-Fu Master si ispira alla parte finale del film, quando Thomas (l’alter ego di Jackie), deve liberare Sylvia da una banda di criminali, facendo squadra assieme a David (Yuen Biao) e Moby (Sammo Hung), spizzicando qualche spunto anche da Game of Death (L’ultimo combattimento di Chen) per l’idea della base nemica da scalare combattendo, un piano alla volta. Nishiyama venne quindi contattato da Capcom, dove la sua passione per le arti marziali – già manifestata in Spartan X – avrebbe dato vita al primo Street Fighter.

Come anche i sassi dovrebbero sapere, l’idea originale ruotava attorno a un cabinato con pulsanti idraulici per dispensare calci e pugni a seconda della forza dell’impatto, una soluzione che richiese l’assistenza di Atari, poiché Capcom non possedeva il know-how necessario per creare un hardware tanto particolare.

Spartan X (1984), conosciuto in occidente come Kung-Fu Master, pone le basi per i giochi di combattimento a scorrimento orizzontale

Un simile cabinato si rivelò inadeguato per diversi motivi, principalmente dovuti alla natura “aerobica” dell’interfaccia, che veniva danneggiata spesso e volentieri dagli avventori più energici, stancando allo stesso tempo la maggior parte dei giocatori che – alla lunga – preferiva optare per giochi più “rilassanti”. Per questo motivo l’intuizione originale cedette il posto alla classica configurazione a base di joystick e sei pulsanti a corredo per giocatore, ma possiamo presumere che l’idea iniziale divenne ispirazione per il sistema di controllo dell’iconica conversione su PC Engine, dove la pressione più o meno prolungata dei due tasti (adibiti, ovviamente, a calci e pugni) restituiva colpi di potenza variabile. Si tratta, apro e chiudo l’inciso, del primo videogioco su CD-ROM, sviluppato da Alfa System per Hudson assieme al “simulatore di appuntamento con idol” No·Ri·Ko, pubblicato il 12 Aprile 1989 con il nome Fighting Street (tenete a mente questo particolare), precedendo quindi di alcuni mesi il celebre The Manhole per Macintosh.

Tornando in sala giochi, Nishiyama ha già le idee chiare riguardo la sua creatura, indipendentemente dai controlli usati: al contrario dei precedenti titoli di combattimento, i personaggi di Street Fighter devono essere ben caratterizzati, immediatamente riconoscibili e dotati di un preciso background, un’idea che avrebbe presumibilmente intrigato i giocatori più giovani. Per strizzare l’occhio all’animazione nipponica, l’Hadoken – ovvero il proiettile d’energia scagliato dal protagonista Ryu – prende ispirazione dall’Hadōhō, il famoso “cannone a onde moventi” dell’anime Uchūsenkan Yamato (La corazzata spaziale Yamato, Star Blazers in Italia) diretto da Leiji Matsumoto. Le altre due mosse, lo Shoryuken e il Tatsumaki Senpukyaku, sono ispirate a tecniche di arti marziali realmente esistenti, solo estremizzate.

I campionamenti vocali che Ryu (o Ken, qualora si impersonasse il secondo giocatore) emette quando viene effettuata una mossa speciale differiscono a seconda dell’adattamento territoriale; quindi, al di fuori del Giappone, l’Hadoken diventa “White Fire”, lo Shoryuken “Dragon Punch” e il Tatsumaki Senpukyaku “Hurricane Kick”. Sotto l’aspetto puramente vocale il risultato offerto dal chip Yamaha YM2151 in Street Fighter strappa volentieri una risata o due, a dispetto delle nobilissime intenzioni del compositore Yoshihiro Sakaguchi. Graficamente, il risultato era decisamente spettacolare, con un’azione velocissima incorniciata da una serie di fondali iconici. Probabilmente, il più memorabile è quello del gigantesco punk Birdie, un personaggio caucasico che sarebbe stato riproposto – inspiegabilmente – in versione afroamericana nella serie Zero/Alpha.

Street Fighter immagine Speciale BirdieLo stage di Birdie è una sorta di melting pot culturale, con una miriade di particolari tutti da scovare. Al centro c’è il pub Block Heads, un riferimento al gruppo rock Ian Dury and the Blockheads che continua in uno dei manifesti sulla destra del livello, particolare peraltro assente nelle versioni casalinghe (PC Engine compresa), poiché composte da meno schermate. Altri due poster figurano sullo stesso muro: il primo è dedicato al Donnaloia, un ristorante italiano di lusso situato ancora oggi a Kōbe, mentre l’altro riguarda nientepopodimeno che The Velvet Underground & Nico, lo sperimentale, nonché fondamentale album di esordio dei Velvet Underground, registrato assieme alla cantante tedesca Nico e co-prodotto da Andy Warhol che ne disegnò l’iconica illustrazione di copertina, qui riconoscibile con tanto di firma stilizzata. Sullo sfondo si intravede la fabbrica della Lonsdale, azienda sportiva inizialmente dedicata alla produzione di equipaggiamento per pugilato che deve il nome a Hugh Cecil Lowther, quinto conte di Lonsdale, nonché personaggio chiave nella diffusione della boxe intesa come “nobile arte” agli inizi dello scorso secolo. Infine, sulla saracinesca del pub figura il volto di Bill Cravens, vicepresidente delle vendite di Capcom USA, ex presidente di Vectorbeam e figura importantissima nel rilancio dell’industria arcade dopo il crash del 1983 grazie al suo ruolo di distributore (dai primi modelli di Pong a campioni d’incasso come Final Fight o Mr. Do!). Bill ci ha lasciati nel 2007, dopo una vita dedicata a rendere popolari i videogiochi a gettone.

HERE COMES A NEW CHALLENGER

La caratterizzazione dei personaggi, accennavamo, sarebbe stato uno dei punti chiave del gioco, una visione che Nishiyama avrebbe perseguito una volta entrato nella scuderia SNK creando Garou Densetsu (1991), a conti fatti il “suo” Street Fighter II. Si tratta di stereotipi immediatamente riconoscibili come ninja, massicci pugili di colore e misteriosi assassini orientali, dotati tuttavia di elementi distintivi capaci di renderli unici e diversi l’uno dall’altro, al contrario degli anonimi lottatori di titoli precedenti come Karate Champ. Prendiamo l’inglese Eagle, connazionale di Birdie con cui condivide un termine golfistico come nome: si tratta di un elegante lottatore armato di bastoni, modellato sulla figura del russo Petrov, il personaggio interpretato da Robert Baker nel film del 1972 Dalla Cina con Furore.

In Street Fighter è facile mordere la polvere e le mosse speciali richiedono una precisione estrema

Volendo ritagliarci una piccola parentesi, un altro riferimento alla cinematografia di Bruce Lee sarebbe arrivato in uno dei fondali del primo Street Fighter Zero, ambientato nel Colosseo con tanto di micio randagio, chiarissimo riferimento al duello tra Chen e Colt (Chuck Norris) in L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente (1972). Torniamo ai personaggi di Street Fighter: Ryu, il più iconico, deve molto della sua caratterizzazione a Masutatsu Ōyama, uno dei karateka più importanti di sempre, nonché fondatore dello stile Kyokushinkai. La convinzione di Ōyama è che un praticante di arti marziale debba dedicarsi completamente all’allenamento, diventando tutt’uno con il pugno, una dedizione che lo spingeva a lunghi yamagomori (ritiri ascetici sulle montagne) per perfezionare la propria arte, dove l’unico collegamento con il mondo civilizzato era la lettura de Il libro dei Cinque Anelli di Miyamoto Musashi. Considerato la “Mano di Dio” del Karate, nonché personificazione della massima dei samurai Ichigeki, Hissatsu (“un solo colpo, morte senza scampo”), la figura di Masutatsu Ōyama è circondata da una serie di storie e avvenimenti a metà tra realtà e leggenda.Street Fighter immagine Speciale ReibaSulla sua vita è basato Karate Baka Ichidai, un manga scritto dal leggendario Ikki Kajiwara (L’Uomo Tigre, Rocky Joe, Arrivano i Superboys) e illustrato da Jiro Tsunoda e Jōya Kagemaru a partire dal 1971. Nel manga, Ōyama affronta avversari dotati di stili differenti, proprio come Ryu, fino a arrivare allo scontro decisivo in Tailandia contro Reiba, la leggenda del Muay Thai. Sembra decisamente un adattamento a fumetti di Street Fighter, vero? Ottimo, e scommetto che la rappresentazione di Reiba vi apparirà altrettanto familiare.

Street Fighter esce nelle sale giochi il 30 agosto 1987, ma non si rivela un campione d’incassi. I motivi? Come detto, il cabinato originale porta con sé una bella dose di problemi, inoltre si tratta di un gioco piuttosto duro: è facile mordere la polvere in pochi secondi sotto i potenti colpi dei nemici, e le mosse speciali richiedono una precisione estrema per essere effettuate, arrivando però a devastare l’avversario quando vanno a segno. Di conseguenza, non era insolito trovare gente che giocava Street Fighter massacrando il joystick nel tentativo di azzeccare l’esatta sequenza per lanciare un Hadoken, consapevole che l’eventuale riuscita della tecnica avrebbe ripagato tutti gli sforzi, mandando al tappeto l’avversario in un paio di colpi. Nishiyama, in seguito, sarebbe stato accalappiato da SNK, dove avrebbe contribuito – con le sue idee – alla creazione del sistema Neo Geo e alla nascita di importanti serie come The King of Fighters.

THE SHOW MUST GO ON

Visto che Street Fighter non si era rivelato un grande successo, Capcom si concentrò su altro, come – ad esempio – promuovere la sua nuova scheda CPS-1 con la creazione di uno sparatutto imponente e muscoloso, capace di mostrare le potenzialità del nuovo hardware, un gioco dove non ti potevano certo fermare con un semplice paramecio, qualunque cosa volesse significare. Street Fighter immagine Speciale NausicaEcco, quindi, un nuovo eroe nella nostra storia, ovvero Akira “Akiman” Yasuda. Illustratore, character e game designer, Akiman ha contribuito in maniera decisiva a costruire la riconoscibile identità di Capcom durante l’era delle sale giochi, entrando nell’azienda a ventuno anni per mettersi al lavoro sui fondali di Side Arms (1986). In quanto a gusti, il giovane Akiman doveva senz’altro essere una persona raffinata; come giudicare, altrimenti, il particolare di Side Arms che vedete qui a sinistra e che sembra ritrarre un cimitero dove riposano i Soldati Titani di Nausicaä?

Akiman viene messo in squadra sotto gli sguardi vigili del veterano Noritaka Funamizu e di Yoshiki Okamoto, il creatore di Time Pilot, giunto in Capcom dopo essere stato licenziato da Konami (beh, loro volevano un gioco di guida, e Okamoto se ne uscì con uno dei più godibili e originali sparatutto del 1982!). Il nuovo progetto è Lost Worlds/Forgotten Worlds, uno dei giochi graficamente più impressionanti del 1988, ma neanche stavolta si tratta di un successo. Il titolo riesce senza dubbio a far parlare di sé grazie alla potenza della nuova mirabolante scheda e alla direzione artistica di Akiman, qui in coppia con il veterano Akira “Nin” Nishitani, game designer con un passato nella redazione della rivista di videogiochi Beep. Spettacolare dal primo all’ultimo pixel, Lost Worlds sfoggia una ricercatezza che richiede uno sviluppo lungo ben due anni. Fondali dettagliatissimi e nemici diversi per ogni singolo livello furono le cause di un ritardo che fece innervosire i piani alti di Capcom, una situazione stressante che insegnò ad Akiman una fondamentale lezione: semplice è bello.

l’Hadoken – ovvero il proiettile d’energia scagliato dal protagonista Ryu – prende ispirazione dall’Hadōhō, il famoso “cannone a onde moventi”

Street Fighter immagine Speciale LostworldUna lezione appresa giusto in tempo per il loro prossimo gioco, da subito limitato dagli alti costi delle memorie, che avrebbero costretto la squadra a lavorare con la metà della grafica di Forgotten Worlds. Per decidere il genere, i due Akira fecero un viaggio a Los Angeles al fine di scoprire quale tipo di gioco andasse per la maggiore, tornando a casa con la certezza che il Double Dragon di Yoshihisa Kishimoto continuava a macinare montagne di gettoni.

Dividendo il lavoro tra pura programmazione (Nishitani) e grafica e meccaniche di gioco (Yasuda), Final Fight viene portato avanti tenendo ben presente i nuovi limiti di memoria imposti da Capcom: al contrario di Forgotten World, non esistono più set di nemici unici per ogni singolo livello, ma l’aspetto dei cattivi viene caratterizzato in modo tale da rendere subito evidente il loro livello di forza, con il colossale Andore che sarà sempre e comunque più pericoloso rispetto ai compagni della Mad Gear, non importa lo stage in cui viene incontrato. Questo espediente non solo rende la lotta contro i limiti di memoria e tempo finalmente più gestibile, ma vanta il non trascurabile pregio di rendere i personaggi del gioco immediatamente familiari e amati, cementando – in breve tempo – la reputazione del titolo. Merito anche delle citazioni nascoste: in una vecchia intervista a Retro Gamer, Akiman ammette che nello staff c’era una ragazza innamorata della musica anni Ottanta, incaricata di trovare nomi adatti ai vari lottatori, con i risultati che ogni buon fan di Final Fight ricorderà sicuramente tra orde di Axl, Slash e Poison.

Street Fighter immagine Speciale FForiginalCuriosamente, nella stessa intervista viene rivelato che Andore non è basato sul popolarissimo André the Giant, bensì su un amico di Nishitani. Ammettiamolo: è bellissimo quando i giapponesi saccheggiano la cultura occidentale per poi fare un passo indietro, intimoriti forse da pool di avvocati! Del resto, l’introduzione prima di un combattimento tra Hugo (lo stesso personaggio nella serie Street Fighter) e Alex in 3rd Strike lascia poco spazio al dubbio, rievocando chiaramente la leggendaria resa dei conti tra André e Hulk Hogan durante WrestleMania III. Durante la presentazione del gioco all’AM Show, Final Fight porta il nome Street Fighter ‘89, non senza qualche inconveniente: Capcom voleva lanciare il suo nuovo prodotto sfruttando il nome di un titolo già familiare ai frequentatori dei Game Center, ma il genere di gioco – differente rispetto al presunto predecessore – generava più confusione che consensi.

UN NUOVO INIZIO

Venne dunque dato il via libera al vero seguito di Street Fighter, anche perché – verso la fine dello sviluppo di Final Fight – i prezzi delle memorie erano tornati finalmente abbordabili. Una piccola parentesi: durante la creazione di Final Fight e Street Fighter II, Okamoto e compagni cercarono ispirazione in diverse pellicole (tentare di inserire elementi facilmente riconoscibili era stato un suggerimento recepito da Akiman durante lo stravagante travaglio artistico sofferto durante la creazione di Forgotten Worlds).

La prima pellicola è Streets of Fire (1984) di Walter Hill, lo stesso regista de I Guerrieri della Notte. Nel film Tom Cody deve salvare la sua ex ragazza dai Bomber, una banda di motociclisti. Anche questo suona familiare? La seconda, invece, è anche più interessante: parliamo di Hard Times (1975), esordio alla regia dello stesso Walter Hill, da noi conosciuto come L’Eroe della Strada. Charles Bronson è un vagabondo che si guadagna da vivere combattendo per strada durante la Grande Depressione. Si tratta del motivo per cui il PC Engine si ritrova un gioco chiamato Fighting Street: il nome del film in Giappone è infatti The Street Fighter. Mi sono permesso di prendere in prestito un paio di immagini dagli amici di VGDensetsu per mostrare come Hard Times abbia influenzato la creazione di Street Fighter II: sono certo che riconoscerete alcuni dei fondali, nell’immagine qui sopra..

Durante la lavorazione di Street Fighter II le idee venivano sottoposte a Akiman – director del team di design, allora impegnato anche nella realizzazione delle illustrazioni per Magic Sword – e aggiornate progressivamente, affinando i particolari e scartando le intuizioni poco convincenti. Ho incluso alcuni bozzetti, che trovate qui sotto: il prototipo per Balrog/Vega, inizialmente un crociato mascherato, venne messo da parte per non offendere la sensibilità religiosa occidentale, così come nel caso di Naradatta, il combattente indiano che poi sarebbe divenuto Dhalsim prendendo ispirazione dallo Zoom Punch del Barone Zeppeli in JoJo, qui simile alla divinità indiana Ganesha. Curiosamente, il personaggio che poi diventerà senza troppi stravolgimenti Zangief (Vodka Gorbavsky durante lo sviluppo) presenta un tatuaggio a forma di ancora sul bicipite. Probabilmente, il classico poster pubblicitario del gioco – destinato poi ad apparire sulla copertina della conversione su Super Famicom – venne creato mentre i personaggi dovevano ancora essere finalizzati a dovere, poiché la stessa decorazione è visibile sul braccio del massiccio lottatore sovietico, risultando però assente nel gioco finale.

Per Street Fighter II la memoria a disposizione era di ben 48 MB, un traguardo che avrebbe permesso di creare qualcosa di realmente rivoluzionario, che però sarebbe costato tantissimo; da qui un pesante mix tra eccitazione e pressione sulle spalle di Nishitani, che si trovò, una volta finite le modifiche sul roster, a tagliare le introduzioni dei vari combattenti per guadagnare un po’ di memoria extra. L’unico personaggio scampato alla forbice è Vega/Bison, con l’animazione del mantello che viene lanciato via nell’ultimo livello. Nishitani e compagni, del resto, erano partiti in quarta al momento di sottoporre il documento di presentazione alla dirigenza di Capcom, elencando una serie di elementi che vennero inesorabilmente scartati, come oggetti sul fondale da evitare, torri dalle cadute fatali e altre stramberie. Addirittura, Okamoto aveva proposto di rendere la barra della vitalità di Chun-Li più corta, poiché una donna non avrebbe potuto possedere la resistenza di un uomo.

ROUND TWO

Tuttavia, Capcom voleva un seguito diretto di Street Fighter, senza particolari stravolgimenti, e così fu. Una delle idee vincenti fu quella di seguire l’intuizione di Nishiyama, conferendo all’universo di gioco una personalità riconoscibile e pronunciata. Da qui l’idea della Shadaloo, in Tailandia, perché per Nishitani e Yasuda quella era la patria dei lottatori più forti del mondo. L’idea di un’organizzazione malvagia avrebbe quindi permesso di creare sottotrame diverse a seconda dei personaggi, non senza qualche imbarazzo. Quella che trovate qui sotto è un’illustrazione (presumo di Sensei Haruki Suetsugu) che mostra Vega/Bison con quella che sembra a tutti gli effetti la celebre foto di Hitler scattata dal fotografo personale del Reich, Heinrich Hoffmann, e coperta da un retino.

Street Fighter immagine Speciale ShadalooPer quanto riguarda il sonoro, la compositrice Yōko Shimomura si trovò a far parte della squadra praticamente per caso. Già parte del team di Final Fight, Yoko avrebbe successivamente lavorato con importanti nomi dell’industria videoludica, prestando il suo talento a realtà come Nintendo e Square Enix. In linea di massima, il suo lavoro su Street Fighter II fu un vero e proprio brainstorming, con Nishitani che descriveva il background del personaggio interessato e la sua nazionalità, mostrando al contempo sprite e fondali; Yoko doveva quindi scrivere tracce idealmente adatte al lottatore interessato. Uno dei miglioramenti più eclatanti di Street Fighter II, rispetto al predecessore, era la facilità con cui effettuare le mosse speciali, modificando la precisione richiesta di qualche fotogramma. Come effetto collaterale, i giocatori più abili erano in grado di concatenare più colpi, dando vita alle moderne combo: una svolta assolutamente non prevista dal team, neppure dopo i numerosi location test che il gioco dovette sostenere prima di essere liberato come una belva in un mondo che mai avrebbe potuto immaginare il suo impatto, con circa 30000 unità piazzate nel solo Giappone.Street Fighter immagine Speciale Mantle

i personaggi di Street Fighter sono ben caratterizzati, immediatamente riconoscibili e dotati di un preciso background

Almeno inizialmente, la componente competitiva non era ancora radicata da quelle parti: i giocatori si limitavano, il più delle volte, a sfidare la CPU, e ci volle una buona sinergia tra Capcom e la rivista dedicata al mondo arcade Gamest per insinuare nel popolo del Sol Levante il desiderio di lottare contro altri esseri umani. Tutto il contrario degli Stati Uniti, dove la mania delle sfide aveva attecchito da subito. Non a caso, un fanatico delle sale giochi americane di nome James Goddard giocò un ruolo fondamentale per il futuro della serie proprio grazie ai feedback raccolti durante il suo lavoro, che consisteva nel consegnare videogiochi arcade per Capcom e annotare gli introiti. James era solito fornire assieme ai dati richiesti dal suo lavoro anche osservazioni varie, e fu suo il suggerimento di creare una nuova versione di un gioco potenzialmente già perfetto, che consentisse di usare i quattro boss e permettesse sfide tra personaggi identici dopo aver raccolto insistenti suggerimenti dal popolo a stelle e strisce. Grazie a James avremmo avuto la Champion Edition, seguita poi da innumerevoli altre revisioni e spin-off.

Con la nostra storia, invece, ci fermiamo qui: Street Fighter, quello di Nishiyama, compie trent’anni, e io ho approfittato dell’occasione per spendere qualche parola sulla creazione del suo seguito, nato da un team differente con tanta voglia di migliorare il capitolo originale, creando un “terremoto” in grado di cambiare per sempre la storia dei videogiochi. Poco importa, oggi, se la traccia dello stage di Ken assomigliasse effettivamente (almeno un pochino) a Mighty Wings dei Cheap Trick, o che Motohide Eshiro (il programmatore di Guile) avesse sfiorato per un pelo le dimissioni dopo la scoperta dell’imbarazzante, nonché famigerato “Handcuff Glitch”, un bug con cui Guile può mandare in malora un combattimento, accalappiando e portandosi in giro un avversario inerme. Street Fighter, del resto, è sempre Street Fighter.

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