Dieci anni, due generazioni di videogiochi e un cambio di medium. Un verbo che prima porta Hollywood nei videogiochi e alla fine porta i videogiochi oltre Hollywood, nell’era dove il piccolo schermo conta più dell’IMAX. Non si può crescere senza lasciare qualcosa indietro, senza passare per Left Behind. Questa è la storia di come l’ha fatto Naughty Dogs, nel giorno in cui Ellie e Joel si ritrovano nell’edizione PC di The Last of Us Parte I.
Prova a pensare a quanto è cambiata la tua vita in dieci anni. A quello che hai perso, alle persone con cui non parli più e alle responsabilità che l’età che avanza assegna indiscriminatamente a tutti, quasi una flat tax sul crescere. A quello che hai guadagnato, alla fine degli studi leggiadri e a quelle sudate carte raccontate dalla Poesia italiana che diventano gli atti notarili di mutui, case, proprietà.
Dieci anni sono un’enormità di tempo, per un medium che corre veloce come il videogioco addirittura di più
Anche il semplice fatto di utilizzare l’etichetta “blockbuster” dice molto delle intenzioni che il videogioco aveva in quella generazione, della sua voglia di legittimarsi a livello industriale e culturale in modo quasi ossessivo, di come lo volesse fare andando a proporre un approccio molto simile a quello tipico della Settima Arte pur di potersi fregiare dello status di Ottava.
NEIL’S DECEPTION
The Last of Us nasce in questo contesto culturale. Più indietro ancora nasce quando la Naughty Dog post-Uncharted 2, per la prima volta nella sua storia, si divide in due team per poter lavorare a due giochi contemporaneamente. È quasi un obbligo, sia dal punto di vista industriale – perché sono anche gli anni dove il videogioco esce dal suo immaginario di artigianato in modo da poter crescere, assecondando la legge della domanda e dell’offerta – che su quello delle responsabilità. Perché Naughty Dog, dopo Uncharted 2, non è più la software house di Crash Bandicoot o di Jax and Daxter, ma è diventata lo studio di riferimento quando si parla di First Party PlayStation spodestando quella Santa Monica che, dopo God of War 3, è in evidente affanno.
Naughty Dog è lo zeitgeist di quegli anni, perfetta rappresentazione di un videogioco che vuole muovere guerra al Cinema sullo stesso terreno
Druckmann sente quasi il bisogno di evadere da Uncharted, dalle sue atmosfere leggere e forse anche da quell’attitudine da Indiana Jones apocrifo che non si prende mai troppo sul serio. “Dissonanza ludonarrativa” dieci anni fa era ancora una parola che trovava voce e corpo nella saggistica, sicuramente non qualcosa che potesse penalizzare la res pubblica di un videogioco, premi e recensioni incluse (a proposito: ecco un nostro editoriale sul tema). Andava benissimo essere i primi a metter piede dentro una tomba persa da millenni e ritrovarci dentro frotte di nemici armati e molto poco interessati alla preservazione archeologica del posto, ma Druckmann vuole andare oltre. C’è questa idea che risale ai suoi anni dell’Università a Pittsburgh, dove per il volgere di strani eoni si è ritrovato a dover pitchare a George Romero in persona un gioco che prendeva ispirazione dal suo La Notte dei morti viventi e dall’onnipresente Ico. C’è anche quella vecchia puntata di quel documentario della BBC, Planet Earth, che parla di come questo fungo Cordyceps prendesse il controllo della mente degli insetti per costringerli a diffondere sé stesso. Del concept iniziale, alla fine, rimarrà poco più di qualche traccia.
The Last of Us nasce come incontro tra un documentario della BBC, Ico e George Romero. Finirà per non essere nessuna di queste tre cose
GRAMMATICHE SENZA CONTROLLER
Il rapporto tra Joel ed Ellie passa solo in minima parte dal gameplay. Realizzare un prodotto audiovisivo su Ico – spogliarlo della sua componente interattiva e della necessità di tenere premuto R1 per tenere Yorda per mano – stravolgerebbe l’opera prima di Fumito Ueda. The Last of Us se la gioca in modo fondamentalmente diverso, quasi non lasciando giocare questo rapporto se non attraverso quelli che sono a tutti gli effetti echi di Uncharted messi a schermo più che altro per questioni di resa tecnica (Parte I esce sui PC di oggi, ma il gioco originale doveva girare su PS3) che di messaggio. È il racconto, in-game ma soprattutto via cutscene, a rendere tangibile il legame tra i due personaggi a chi sta giocando. Da questo punto di vita The Last of Us non poteva che essere un perfetto candidato a una trasposizione televisiva: si perde il layer di interazione, ma il cuore dell’opera alla fine è sempre stato nel racconto. Si parla però comunque di due linguaggi diversi. È vero che – per esempio – i primi due episodi della serie, al di là delle ovvie differenze dovute alle variazioni delle premesse sul contagio, viaggiano in modo molto aderente a quanto si poteva vedere a schermo su PS3 e si può vedere in questi giorni su computer. Ma nella serialità televisiva ci si può permettere di pensare a degli episodi dove il punto di vista non è necessariamente quello del protagonista, dove è normale cambiare soggetto e anche giocare con le coordinate temporali in modo più fluido che nei videogiochi.
L’arco di Bill e Frank incarna perfettamente queste possibilità: laddove nel The Last of Us gioco gli eventi erano già successi e se ne poteva venire a conoscenza dai messaggi lasciati in giro, nella serie TV i due personaggi vengono riscritti. Non sono vicende destinate a rimanere sullo sfondo e ridotte a poco più di log testuali, ma momenti in cui il Neil Druckmann di oggi interviene su quello di ieri lasciando che questo venga contaminato dall’impegno, anche politico, che l’autore ha assunto in modo più esplicito con Left Behind e Parte 2. Left Behind stesso in questa versione seriale ha molto meno l’aria di un DLC in un qualche modo opzionale, entra a far parte della storia così come viene raccontata in TV adattandone alcuni dei momenti (quello della sala giochi) nella forma ma non nella sostanza. Piuttosto che lasciare spazio all’immaginazione di Ellie era più facile dare un riferimento reale al pubblico della serie TV, che probabilmente conosce Mortal Kombat di fama anche se non ha mai videogiocato – è stato un caso dibattuto anche nel senato americano negli anni ‘90. Ma il significato di ciò che appare a schermo è il medesimo e prescinde dalla sua messa in scena, non perdendo nulla nella traduzione da gioco a serie.
Quello che The Last of Us “perde” diventando serie è il gameplay. E non l’avrei mai detto, si percepisce
Mancano quelle sezioni in mezzo di un’ordinaria vita di tutti i giorni dopo un’apocalisse. Momenti inutili come tanti altri momenti inutili costellano le nostre vite fuori dagli schermi, che però finiscono per dare peso e sostanza alle 24 ore che compongono una giornata. Sono venuti meno i diversivi, quelle ore di esplorazione tutto sommato fine a sé stessa che però mi davano la possibilità di pensare a quello che stavo giocando e a cosa avevo visto. Bill e Frank nella serie HBO hanno un episodio dedicato e tornano in qualche dialogo più avanti. Giocando The Last of Us a loro invece ho pensato diverse volte. Ci ha pensato il “mio” Joel, perché Joel era la maschera che stavo impersonando. Questo non è un problema o un disvalore però, piuttosto il contrario. In una trasposizione vanno tenute presenti le regole della grammatica dei due medium, tanto di quello di partenza quanto di quello di destinazione. A tutti gli effetti si parla di due opere diverse, con finalità e linguaggi diversi. E forse è qui che Druckmann ritorna a Ico, perché il valore della parte giocata di The Last of Us Parte 1 diventa chiaro per sottrazione dopo aver visto la serie.
THE LAST OF US ESCAPE FROM THE PAST
E sempre per sottrazione diventa chiaro cosa si è lasciato alle spalle The Last of Us dopo la sua Parte 2, figlia del suo anno di uscita tanto quanto l’originale The Last of Us è la perfetta sineddoche della settima generazione. L’ottava generazione è stata quella dove il videogioco ha (ri)scoperto il suo linguaggio, ha iniziato a parlare attraverso il giocato laddove prima si veicolava l’emozione tramite filmati.
La cifra stilistica di Parte II è raccontare con il gameplay
La stessa cosa avrebbe richiesto una riscrittura più pesante del gioco, un remake completo e non aderente 1:1 alla Naughty Dog di 10 anni fa. Avrebbe richiesto quello che la serie HBO si è potuta permettere in quanto opera derivata e non riproposizione con lo scopo di fungere da capsula del tempo per chi sceglie di riviverla dieci anni dopo, magari proprio per tornare a chi era nel giugno del 2013 ignorando per quattordici ore il tempo che è ineluttabilmente passato.
Il linguaggio sta cambiando ancora, in TV come nel medium che ha consacrato Naughty Dogs