Tacconi ha poi postato un video nel quale chiede scusa, dice che era una roba goliardica tra amici e che non è fascista. Suona un po' come la solita paraculata, ma secondo me ha (abbastanza) ragione... Magari sotto sotto un po' razzista lo sarà anche, come buona parte della popolazione italiana, ma dubito sia quel membro del KKK che si sta linciando su Twitter.

Lui probabilmente sarà di destra o non di sinistra (che è quello che voleva intendere con "fascista"), mentre Vicini era più sinistreggiante (che è quello che voleva intendere Brighenti dicendo "comunista"), e così via. Il resto sono battute da caserma, come scorreggiare con gli amici in palestra, non certo cose delle quali andare orgogliosi, ma insomma... l'abbiamo fatto (quasi) tutti.

Riporto questo articolo (di un linguista, mica di Salvini) relativo alla vicenda Sarri-Mancini, che mi pare abbastanza adattabile anche a questa qua, soprattutto perché ormai si tende a confondere la dimensione privata della comunicazione con quella pubblica, quando invece sono due faccende profondamente diverse. E in parte la confonde anche Tacconi se ha deciso lui di pubblicare quel video, non rendendosi conto della rilevanza diversa che stava attribuendo alle sue parole e del "guaio" in cui andava cacciandosi (perché, a meno che tu non sia un politico, uscite del genere non sono convenienti, rischi di perdere ospitate in giro, ecc.).

http://corsolinguistica.altervista.o...ilita-tecnica/

Ciò che invece non va bene è credere che l’uso di termini in cui è depositata la discriminazione sia automaticamente, in ogni contesto, rivelatore di posizioni discriminanti e retrograde. [...]

La dimensione da introdurre è quella contestuale: ogni parola o frase usata in qualsiasi momento non ha alcun significato se non inquadrata nel suo contesto di enunciazione (non lo dico io, ma Malinowski).

Il contesto, a cui generalmente si ascrivono tutti le caratteristiche extralinguistiche che concorrono a dare un significato a quanto viene detto, è determinato da una marea di tratti, che vanno dai più rilevanti (quelli generalmente studiati, come destinatario, numero dei destinatari, copresenza spaziale o temporale, mezzo di trasmissione, ecc,)

[...]

Come già ebbi modo di scrivere in altre occasioni è imprudente e frettoloso assegnare a una brutta parola un brutto pensiero. Da tale connessione deriva generalmente che chi dica “frocio” sia automaticamente omofobo e retrogrado, che chi dica “zingaro di merda” sia automaticamente razzista, che chi dica “David Foster Wallace” sia automaticamente un hipster. Sono brutte parole, sarebbe bene non usarle, ma (aridaje) non possiamo assegnargli sempre e unicamente lo stesso significato in ogni (cazzo di) contesto. Semplicemente perché non hanno lo stesso significato, anche se sono le medesime, identiche, parole.

In questi casi, la visione appiattita del significato linguistico per me risiede nella grande distanza che c’è tra i valutatori e i valutati: i valutatori (giornalisti, intellettuali e sommi pensatori di Facebook) quando pensano al linguaggio pensano alla lingua scritta, o più generalmente, alla lingua usata in una dimensione pubblica. È proprio con la lingua che lavorano: una lingua misurata e razionalmente dosata, ricca di parole sapientemente scelte tra numerose altre parole, e per questo distintive, marcate e rappresentative; non solo, spesso le parole usate possono essere cancellate o sostituite prima della diffusione del testo (e da quando c’è internet, anche dopo la diffusione del testo): se un giornalista scrivesse “zingaro di merda” parlando di Mandzukic potremmo abbastanza ragionevolmente presupporre che sia un razzista (o che sia fortemente ironico, ma questo dipende da altre variabili del contesto): ha scelto “zingaro di merda” tra numerose altre locuzioni, voleva proprio usare quella, vuole dirci che gli slavi per lui sono zingari e che gli zingari gli stanno sul cazzo (vedi il titolo di Libero: “Bastardi islamici”). Questo non vale naturalmente solo per lo scritto, ma in generale per tutti quei discorsi, anche orali, che vengono definiti “asincroni“: ovvero la cui ricezione avviene in un momento o in un luogo diverso dalla produzione. Ovvio, ci sono molti casi di cui si potrebbe discutere (ma ora non ne vale la pena, credetemi): possiamo però dire che la pubblicità e la programmazione di una parola è direttamente proporzionale alla rappresentatività che possiamo assegnare all’uso di quella parola.

Le persone valutate sono in genere colte nel loro uso orale, o più in generale sulla lingua usata in una dimensione privata: una lingua usata spesso in un contesto sincrono, caratterizzato dalla co-presenza spaziale o temporale dell’interlocutore, che può a sua volta rispondere immediatamente. Questo formato conversazionale botta e risposta riduce notevolmente i tempi di intervento e la possibilità di scelta, riducendo di conseguenza anche la rappresentatività dei termini usati. Nella vita di tutti i giorni ci salva, dal punto di vista sociale, dalla natura evanescente del parlato: potessimo accedere su qualche hard disk a tutte le parole che abbiamo usato nella nostra vita, rimarremmo sconvolti da quante parole sbagliate abbiamo usato.

La possibilità di registrare il parlato, e quindi di poterlo riprodurre, e quindi di poterlo rendere pubblico all’infuori del preciso contesto di produzione, sacralizza di fatto le parole usate, le fissa; l’abitudine a vedere in una parola fissata una parola scelta fa il resto e porta a pensare che quella parola sia stata scelta, sia distintiva, e riveli perciò un preciso significato su quale sia il pensiero dell’interlocutore. [...]