Allegri, la Juventus e quella curiosa felicità del giocar male a calcio
L’allenatore della Juventus difende la sua squadra brutta e vincente: un ragionamento che, risultati alla mano non fa una piega. Ma che è anche molto rischioso
di Tommaso Pellizzari
L’allenatore della Juventus Allegri (LaPresse/Badolato)
Giochino: chi ha detto questa frase? «È straordinaria l’arroganza di quegli spettatori che, dalle loro poltrone, chiedono a una squadra di giocare un calcio inefficace ma che sia (per loro) divertente». Risposte possibili: a) lo storico della tattica Jonathan Wilson; b) l’allenatore della Juventus Massimiliano Allegri; c) Gianni Brera.
Se avete risposto a), siete degli attenti lettori del Guardian (e avete indovinato). Ma se avete risposto b), non avete sbagliato, perché proprio lunedì sera Allegri ha commentato
la (brutta) vittoria per 1-0 sul Genoa con concetti simili, sebbene espressi con parole diverse: «Conta segnare e vincere, e nell’albo d’oro si scrive primo e basta. Son contento quando si dice che giochiamo male». Una variante di un concetto che il tecnico livornese ha più volte ribadito in conferenza stampa: «Chi vuole divertirsi» (sottinteso: guardando il calcio) «vada al circo».
Nelle sue prime tre stagioni alla Juventus, Allegri ha vinto tre campionati, tre Coppe Italia, una Supercoppa italiana ed è arrivato due volte in finale di Champions League. Nella quarta, è ampiamente in corsa per fare altrettanto (se non meglio). Ma non sono solo i risultati a sostenere il suo ragionamento.
Ci sono tre possibili modi di guardare il calcio. Il primo è quello degli allenatori. Che hanno un solo interesse: trovare il modo migliore per vincere. E ognuno sceglie il suo. Col passare degli anni, Allegri si è sempre più avvicinato alla scuola di pensiero che bada all’essenziale. E i risultati gli hanno dato ragione. Quindi per lui va bene così (anche se il fastidio con cui risponde alle domande sull’argomento fa trasparire qualcosa di non risolto. Ma non facciamo facile psicologia).
Così come va bene ai tifosi della Juve, cioè una parte ampia e significativa della seconda categoria di osservatori del calcio. Qui il discorso si complica un po’. Perché il tifoso è per definizione un fedele ondivago: quello che funziona per la sua squadra va bene. Il che fa supporre che se un domani Guardiola arrivasse alla Juve, club da sempre allergico a discorsi sull’importanza dello spettacolo, il tifoso bianconero medio diventerebbe un acceso sostenitore dei risultati ottenuti solo e soltanto attraverso il gioco (per di più di possesso).
Ma lo status del tifoso è duplice: coinvolto e parziale quando gioca la sua squadra, è tuttavia anche un appassionato di calcio che diventa neutrale davanti a una partita che non lo riguardi direttamente e indirettamente. Spesso, cioè, il tifoso finisce per ritrovarsi nella terza categoria di chi guarda il calcio: l’osservatore non coinvolto.
E cosa chiede l’osservatore non coinvolto (cioè a turno tutti noi) a una partita di calcio? Una brutta vittoria per 1-0, difesa per 74 minuti, o qualcosa di diverso (che non sia necessariamente la meraviglia di Liverpool-Manchester City di qualche giorno fa)? Domande che si può provare a porre in un altro modo. Siete a casa, non avete niente da fare e in tv c’è una partita della Juve e una del Napoli (e voi non siete tifosi di nessuna delle due): quale guardate? E tra Barcellona e Real Madrid? E tra Manchester City e Chelsea?
È qui che il ragionamento di Allegri sconfina nel paradosso: perché continua a non fare una grinza. E contemporaneamente smette di funzionare. Dal suo punto di vista (di allenatore che deve vincere) è impeccabile. E sarebbe da arroganti a chiedergli di cambiare idea o modo di far giocare la Juve. Resta però il problemino di quei miliardi di persone che vedono il calcio come passatempo preferibile a una serata al circo e che a una partita chiedono proprio quello: spettacolo.
E se sembra troppo retorico rifare ancora una volta l’elenco delle squadre magnifiche e perdenti (l’Ungheria del ’54, l’Olanda del ’74...) rimaste nella memoria più di tante brutte e vincenti, si può fare una cosa più semplice: dare un’occhiata a quanto incassa il calcio italiano per la trasmissione delle sue partite all’estero: 371 milioni di euro, contro i 1.300 della Premier League e i 636 della Liga spagnola.
Sul calcio e la vittoria ci sono due celebri frasi. La prima è della leggenda juventina Giampiero Boniperti: «Vincere non è importante. È l’unica cosa che conta». La seconda è di un’altra leggenda (Bill Shankly, storico allenatore del primo grande Liverpool): «Alcuni credono che il calcio sia una questione di vita e di morte. Vi assicuro che è molto, molto di più». Erroneamente, le due frasi vengono considerate affini. È probabile, infatti, che solo nella seconda trovino spazio tuti i sentimenti che il pallone genera. Insieme ai profitti. Sarebbe meglio, per il calcio italiano, tenerlo presente.
(Se poi alla domanda iniziale avete risposto «Gianni Brera», anche in quel caso l’errore è parziale. Ancora nel 1978, il più grande giornalista sportivo italiano non riusciva a farsi una ragione del fatto che Bearzot provasse a impostare la sua nuova Italia su un calcio propositivo invece che continuare la gloriosa tradizione contropiedistica. Poi capì. Ed essendo Brera riconobbe l’errore).
http://www.corriere.it/sport/18_genn...c32c6722.shtml